Vigneti,
castelli e contrade di Montagna in Valtellina
alla
riscoperta di antiche tradizioni valtellinesi
|
Al castello di Mancapane in una splendida giornata d'autunno. |
Partenza: Sondrio (m 300) - istituto Pio XII.
Itinerario automobilistico: -
Itinerario sintetico: Sondrio (m 300) - castel Grumel (m 494)- chiesa di Sant'Antonio - chiesa parrocchiale di San Giorgio (m 549) - ca Pain - ca Credé - ca Benedéc' (m 767) - ca Bungiàsscia (m 893) - castello di Mancapane (m 909) - mulìn de ca Mazza (m 830 ca.) - ca Farinna - camp sant - Prada - risc di Mort - chiesa di San Giorgio - capitèl de Riva - Busciànic - Sondrio (m 300)
Attrezzatura richiesta: -
Difficoltà/dislivello in salita: 1 su 6 / oltre 600 m.
Dettagli: T. Gita su sentieri senza difficoltà, ma talvolta non segnalati. Si consiglia di portarsi appresso una mappa.
Un semplice itinerario ad anello tra i terrazzamenti vitati e lungo i sentieri che collegano il fondovalle con il centro di Montagna in Valtellina e le sue frazioni alte. Una visita ad antiche strutture rurali: castelli, centri abitati, un mulino. Un percorso ideale per conoscere la coltivazione della vite e dei cereali, di questi ultimi principalmente segale e grano saraceno, come era praticata un tempo in queste contrade, dalla semina al raccolto, per concludere con la preparazione del pane, cotto nel forno a legna. Un tipo di agricoltura scomparsa, della quale possiamo venire a conoscenza tramite le testimonianze dirette degli ultimi contadini, ma anche con l’osservazione e tanta immaginazione.
Pensiamo che portare i ragazzi lungo un percorso a ritroso nel tempo possa dar loro la possibilità di capire, almeno in parte, come si svolgeva la vita agricola e sociale in Valtellina e come fosse legata al lavoro nei campi.
Conoscere le proprie tradizioni offre ai ragazzi la possibilità di identificarsi in una comunità: di sapere chi sono, da dove vengono. Conoscere in modo più approfondito il proprio territorio forse consentirà loro di imparare ad apprezzarlo.
L’escursione proposta, oltre ad avere un aspetto prettamente didattico, ha il merito di svolgersi in un ambiente naturale emozionante, a tratti avventuroso e mai pericoloso: si seguono sentieri tra i terrazzamenti coltivati a vite, si visitano antichi nuclei rurali, un mulino e un forno, si attraversano vallate selvagge e si raggiungono ben due castelli situati in posizione panoramica.
L’intento è quello di stimolare i ragazzi a una frequentazione intelligente e consapevole del territorio attraverso la sua osservazione e valorizzazione.
Il percorso
L’escursione
inizia direttamente dall’istituto scolastico Pio XII a Sondrio. Da
qui raggiunge la centrale dell’ENEL in località ca Bianca per poi
salire attraverso i vigneti al castello De Piro al Grumello. Una
sosta al muruné di S. Antoni, quindi si sale al centro di Montagna
con l’interessante complesso chiesastico. Attraversata ca Paini (m
622), si sale a ca Credaro (m 700), ultima
località di residenza invernale, proprio sul limitare della zona del
vigneto. Oltrepassata la frazione, s’incontra
una zona rocciosa, terreno da sempre incolto ove hanno modo di
crescere spontaneamente solo piante termofile quali le querce.
Un’antica cappella testimonia la profonda devozione della gente che
qui sostava spossata per la salita e dai pesanti fardelli nelle
gerle. Il sentiero, un tempo interamente
selciato, continua fra antichi terrazzamenti oggi quasi completamente
occupati dal bosco di robinie e cespugli di more, sino a ca Benedetti
(m 767). Su questi
terrazzamenti il clima consentiva la coltivazione dei cereali,
principalmente segale, grano saraceno, mais, orzo e patate piantati
con diligente rotazione.
Le residenze
temporanee di ca Benedetti (m 767),
ca Pavadri, e ca Bongiascia erano utilizzate in primavera e nel tardo
autunno per consentire i lavori di apprestamento dei campi. Nuclei
oramai costituiti da seconde case o ruderi, muti testimoni
dell’operosità degli antichi abitanti, mentre diversi campi hanno
lasciato il posto a prati da sfalcio. ca
Bongiascia (m 893) è caratterizzata da case massicce sulla cui
facciata meridionale si notano numerosi ballatoi in legno utilizzati
per l’essicazione dei prodotti cerealicoli. Si prosegue in piano, e
attraversato un piccolo affluente del Davaglione si raggiunge il
culmine del dosso morenico ove svetta il castello
di Mancapane (m 909). Dopo la fatica, una meritata sosta pranzo
s’impone alla visita del castello. scendere verso il ramo del
Davaglione dal quale è derivata l’acqua che aziona il mulino di ca
Mazza-ca Zoia. Il torrente scorre incassato in una gola selvaggia e
suggestiva; attraversato il ponticello in prossimità della presa,
s’imbocca la scalinata che risale l’erta sponda e in breve si
raggiunge il mulino. La visita dell’opificio è sicuramente
interessante, soprattutto se a illustrarlo sono gli ultimi anziani
che ancora lo utilizzano. Poco sotto sono i ruderi del “Mulino di
Burtui”. Terminata la visita, si scende lungo il sentiero delle
Piane (diretto) che tra enormi castagni abbandonati come antichi
relitti nel bosco che incalza, giunge alle contrade di ca Vervio e ca
Farina. Riattraversato il centro di Montagna si prende via Carasc,
quindi il vecchio sentiero di Riva che inizialmente ripido e
incassato tra alti muri scende verso Sondrio. Il percorso, che
conserva ancora qualche tratto di acciottolato, termina poco dopo il
“Capitel de Riva”. Si rasenta un luminoso castagneto da frutto al
termine del quale la strada curva in direzione S. Imboccata la prima
deviazione a destra (via Crocifisso) ci si immette su via Buscianico
(dx) percorrendola sino ad incrociare la Panoramica in località
Colda. Continuando lungo il marciapiede in breve si è di nuovo a
Sondrio.
Le colture cerealicole e il territorio
Difficilmente,
osservando il versante montuoso posto sopra l’abitato di Montagna
in Valtellina, si riesce a immaginare come esso si potesse presentare
fino agli anni Cinquanta. Sopra la fascia destinata ancora oggi al
vigneto, infatti, il bosco ha progressivamente invaso e cancellato
quello che fino ad allora era un vasto estendersi di terrazzamenti
coltivati a foraggio e mais, tra i quali spiccavano i numerosi
appezzamenti dal colore paglierino del grano saraceno o della segale.
Sino ad una quota di mille metri circa il bosco era quasi assente,
eccezion fatta per le zone dedicate a castagneto.
Segale
e grano saraceno sono colture che ben si adattano a climi
relativamente freddi d’inverno e asciutti d’estate, su terreni
ben soleggiati ma poveri di sostanze nutritive, ove difficilmente il
frumento giunge a maturazione. La farina di frumento era costosa,
poiché doveva essere trasportata dalla pianura padana; così,
nell’economia autarchica valtellinese, si sopperiva alla sua
mancanza coltivando il grano saraceno, la segale e il mais. Questi
cereali consentivano la preparazione di cibi ‘poveri’ ma
sostanziosi quali pane di segale, polenta, pizzoccheri, un tempo
necessari al sostentamento e oggi divenuti specialità gastronomiche
(quasi come è avvenuto per la pizza nel meridione d’Italia).
La
costruzione e il mantenimento dei terrazzamenti, ottenuti con
l’erezione di muri a secco, aveva anche la funzione di preservare
il territorio da frane e smottamenti che hanno interessato il Comune
di Montagna dai tempi più remoti, come si evince da alcuni documenti
Trecenteschi. L’irrigazione dei campi avveniva grazie all’acqua
del Torrente Davaglione, che si poteva utilizzare a tale scopo solo
di giorno poiché di notte doveva fornire la forza necessaria a
muovere le pale dei numerosi mulini (pare che ce ne fossero 19 in
tutto il comune) dislocati lungo il torrente stesso.
ca
Mazza, m
830
Antica
contrada tutta raccolta intorno alle strette viuzze, con volte,
sottopassi e un’unica piazzetta. Purtroppo quasi tutte le case sono
in rovina. Un sentiero che fiancheggia la modesta ma turbolenta Valle
dell’Orco la collega in pochi minuti a ca Zoia, uno degli
insediamenti stagionali appartenenti alla quadra di S. Maria (m 904).
ca Zoia
L’insediamento
di ca Zoia, che rispecchia le caratteristiche tipiche del maggengo,
era abitato dalla primavera all’inizio dell’inverno per poter
attendere ad attività agricole molto importanti: la fienagione, la
mietitura, la semina e il taglio della legna. Gli edifici appaiono
essenziali nella loro architettura e sorgono abbastanza distanziati
tra loro; numerosi alberi di noce occupano gli spazi pubblici.
L’origine del villaggio è antichissima, attestata dal ritrovamento
di una lastra in pietra recante inciso il nome di un nobile in
caratteri etruschi, probabilmente risalente al I secolo a.C. La
massiccia struttura di una casa, situata nella parte bassa
dell’abitato, ricorda quella della casa-fortezza, con i bastioni a
rinforzare gli spessi muri perimetrali. Una mulattiera comoda e
pianeggiante porta al Mulino di ca Mazza-ca Zoia; la sua ampiezza ci
dice quale importanza rivestisse per tutte le frazioni del
circondario. Attraversato un bosco di enormi castagni si raggiunge
l’opificio.
Il mulino di ca Mazza – ca Zoia
Il
mulino, situato sul ciglio della Valle del Davaglione in località Le
Piane di ca Mazza ad una quota di 890 metri circa, è un piccolo
edificio a pianta quadrata, a un piano, con muri a secco e tetto a
una falda. La costruzione è stata recentemente ristrutturata grazie
al generoso contributo della Comunità Montana Valtellina di Sondrio;
poco a valle esiste anche un secondo mulino, in disuso da molti anni.
L’acqua,
tramite una canalizzazione in pietra a secco, è convogliata dal
torrente a una breve condotta in legno (ricavata da un tronco
scavato) che la fa precipitare sulla ruota del mulino. La ruota a
pale è posta orizzontale in un vano seminterrato, e trasmette
direttamente il movimento alla soprastante macina del mulino tramite
un asse verticale. Il meccanismo a pala orizzontale è più semplice
di quello a pala verticale, presente in altri mulini valtellinesi,
perché elimina l’ingranaggio che serve ad innestare l’asse della
ruota a pale su quello della macina. Nell’unico, piccolo locale si
trova il mulino, costituito da:
una
tremoggia – un grande
contenitore di legno a forma di imbuto, sovrastante le macine dove
viene versato il cereale da macinare;
una
cazzòla – che regola il
flusso di grano da far cadere sulle macine. Con un semplice ma
ingegnoso sistema, un battente percuote la tremoggia facendo passare
il grano dalla cazzola;
le
macine - compongono la parte
essenziale di questo opificio e sono costituite da due grandi ruote
in pietra, delle quali la superiore ruotante e l’inferiore fissa.
Il movimento rotatorio dell’una sull’altra consentiva la
macinatura del prodotto. La distanza tra le due macine al centro era
di pochi millimetri e diminuiva man mano che si andava verso
l’esterno; così durante il movimento della macina ruotante i
chicchi, per forza centrifuga, si spostavano verso l’esterno,
venendo triturati e ridotti in farina;
il
cassone – il cereale
macinato, tramite una scanalatura, cade in un cassone di legno. A
seconda della complessità del mulino esistono diversi sistemi per
filtrare la farina: dalla bürata,
che serve per raccogliere la farina più fine e tutti i suoi
sottoprodotti in diversi scomparti, ai setacci a mano.
Il
mulino non doveva mai funzionare a vuoto in quanto le macine
avrebbero potuto danneggiarsi compromettendo così la lavorazione del
cereale. Nel periodo estivo i mulini del comune di montagna
funzionavano di notte, poiché di giorno l’acqua serviva
all’irrigazione dei campi; d’inverno, invece, non essendoci
necessità irrigue e data la scarsa portata d’acqua del Davaglione,
i mulini potevano funzionare giorno e notte.
Alcuni
mulini erano di proprietà di più famiglie che si alternavano
giornalmente al loro funzionamento macinando la propria farina. Nel
caso dei mulini privati era il mugnaio, soprannominato mulinè,
a macinare il raccolto dei contadini della zona. Se il contadino non
aveva la possibilità di pagare in denaro il lavoro lui eseguito,
questi tratteneva una piccola parte del macinato, detta multura.
Per intenderci, su un quintale di grano macinato il mugnaio
tratteneva dai cinque ai dieci chili di farina a seconda della
difficoltà della macinatura. La segale, ad esempio, richiedeva una
fase di lavorazione più lunga avendo chicchi più duri.
Il castello di Mancapane
<<Un
antico rudere naufragato nel bosco, un recinto fatto da mura
sgretolate e sbrecciate, una torre severa>>.
Mancapane
è uno dei più notevoli monumenti valtellinesi e uno dei più tipici
esempi di castello-recinto dell’arco alpino. La mancanza di
documenti probatori non permette una datazione precisa; dall’analisi
del manufatto, le sue origini sembrerebbero risalire alla seconda
metà del XIII secolo. La struttura sembra già annunciare lo schema
più tipico del castello lombardo: a pianta quadrata, con cortile
interno e una sola torre al centro.
Il
nome non deriverebbe da un lungo assedio, durante il quale agli
occupanti sarebbe appunto venuto a mancare il pane, ma dalla
storpiatura di Catapani,
antico nome che designava la famiglia dei Dè Capitanei.
“Mancapane”
è situato al sommo di un poggio morenico lambito da due rami del
Torrente Davaglione, nei pressi di ca Bongiascia. Posto in posizione
ideale per l’avvistamento e la segnalazione di eventuali nemici,
esso domina il sottostante Castel Grumello e un lungo tratto
dell’Adda e della media Valtellina lungo la quale, sulla sponda
orobica, era in contatto visivo con altre torri di segnalazione (a
Faedo, Albosaggia, ecc.). Secondo una credenza popolare Mancapane era
collegato al Castel Grumello tramite un lungo cunicolo.
A
differenza del castel Grumello – De Piro, che svolgeva anche
funzioni abitative, Mancapane serviva unicamente per avvistamento e
segnalazione; tutt’al più avrebbe fornito un temporaneo rifugio a
persone, bestiame e merci nel caso di improvvise incursioni nemiche.
La preparazione e la cottura del pane
Al
termine della catena produttiva della coltivazione di segale e grano
saraceno, che comprende le operazioni della semina, della mietitura,
della trebbiatura, della pulitura, dell’essicazione, della
macinazione, vi è la preparazione del pane. Un tempo ogni famiglia
nella propria casa aveva un forno, con il quale cuocere autonomamente il
pane. Il pane bianco di frumento veniva preparato solamente nelle
feste maggiori, Natale, Pasqua, Corpus Domini. Per il resto dell’anno
era prevalentemente di farina di segale, che poteva anche essere
miscelata con farina di grano saraceno o mais. La panificazione
avveniva poche volte l’anno, sicché le pagnotte venivano consumate
prevalentemente secche.
Il
lievito necessario per panificare era ottenuto facendo fermentare i
resti, lasciati di proposito, dell’impasto della panificazione
precedente, i quali venivano conservati con un pizzico di sale e
mantenuti in luogo fresco. Il mattino presto le donne impastavano la
giusta dose di lievito, di farina e di acqua tiepida salata entro una
cassa detta panera.
La pasta veniva poi lasciata lievitare per almeno tre ore prima di
essere trasformata in pagnotte, successivamente disposte su delle
assi in attesa di essere infornate. Il forno veniva acceso con i
tralci della vite, i vidisciun,
poi bisognava attendere che raggiungesse la giusta temperatura,
intuibile dal colore assunto dalle mattonelle al suo interno. Il pane
veniva messo a cuocere per circa un’ora e mezza. Insieme al pane
venivano infornati anche alcuni semplici biscotti dolci, riservati
agli anziani a ai bambini. Preparare il pane in casa era un’arte
difficile: bisognava saper far bene il lievito, miscelare le giuste
parti di lievito, farina e acqua, rispettare i tempi di lievitazione
e di cottura, capire la giusta temperatura del forno.
Turbina Pelton ad asse verticale - Sondrio - centrale ENEL. |
La ca Rossa, su un poggio panoramico a O del castel Grumello. |
Vigneti del Grumello. |
La chiesa di San Rocco posta accanto al castel Grumello. |
Il castel Grumello, corpo occidentale. |
La torre orientale vista da quella occidentale del castel Grumello. |
La chiesa di San Giorgio. |
La gesa di Mort. |
Al capitello sopra ca Credé. |
Vista su San Giovanni. |
Ca Bongiascia. |
Il castello di Mancapane. |
La scala di accesso alla torre. |
Enrico Menegola spiega ai ragazzi il funzionamento del mulino di ca Mazza. |
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