martedì 8 ottobre 2019

Punta di Bresciadega (m 2666)

Cartografia alla mano, la punta Bresciadega parrebbe gregaria rispetto alle vicine punta Magnaghi, punta Como e Sasso Manduino, ben maggiori di stazza e impegno alpinistico, con le quali forma la testata della val Ladrogno. Le sue pendici affondano chiaramente nella piana di Bresciadega e del Brasca a N, mentre per descrivere l'anatomia di quelle meridionali la faccenda si complica: si inerpicano a SE fondendosi nella bocchetta di Spassato, mentre a SO si buttano a valle corrugandosi in due costoni principali che formano una sorta di cassa toracica, con tanto di spina dorsale al centro - un esile colatoio di oltre 700 metri di dislivello - e si abbassano fino ad un lariceto, alla stessa quota del bivacco Casorate Sempione. La cuspide sommitale, a NNO sfaccettata con pareti a strapiombo, dai suoi m 2666 offre una 'punta' di osservazione privilegiata sulla impressionante valle d'Arnasca, con le sue distese di erba iva e le vie percorse nella notte dei tempi da pastori e cacciatori, e sulla severa cordigliera che congiunge il Ligoncio al Badile. Il panorama a SO invece spazia fino a lambire il massiccio del Rosa, e nei giochi di luce del crepuscolo sembra perfino di scorgere il Gran Paradiso. 

Il tracciato per la punta di Bresciadega visto dal Sas di Mort, dall'altra parte del lago di Mezzola .
Per salire sulla punta di Bresciadega abbiamo improvvisato una via esplorativa: un anello che percorre, oltre al tratto non frequentato del Tracciolino, la repulsiva e selvaggia valle Cavra, quindi tocca le panoramicissime sommità della cima di Lavrina e del Mot Luvrè, prima di dedicarsi all'inaspettatamente lunga traversata dell'edificio sommitale della punta di Bresciadega. La discesa? Per la parete E e per la val Ladrogno, dove i sentieri sono stati fagocitati dall'erba alta.

Dalla forcella dei Pianei alla punta di Bresciadega. In fucsia il percorso normale, dove delle catene vengono in aiuto dei meno preparati, oggi impraticabile per ghiaccio.

Il tracciato visto dal monte Beleniga.

Il tracciato visto dalla Motta di Avedèe.

Partenza: Novate Mezzola - Località Castello (m 312).
Itinerario automobilistico: dal faraonico svincolo di Piantedo seguire la SS 36 per Chiavenna. A Novate Mezzola, si imbocca sulla dx, poco dopo la stazione ferroviaria, la strada (cartelli indicanti la val Codera) per la frazione Mezzolpiano , dove, in località Castello (m 312), si posteggia l’auto nell’ampio piazzale sterrato allo sbocco della val Codera (14 km da Piantedo).
Itinerario sintetico: località Castello (m 312) – Codera (m 825) – Ganda (m 939)  – la Presa (m 940) – Beleniga (m 1034) – bocchetta di Cavra (m 2094) – Mot Luvré (m 2047) – Cima di Lavrina (m 2313) –  forcola  dei Pianei (m 2233) – punta di Bresciadega (m 2666) – bivacco Casorate-Sempione (m 2100) – In Cima al bosco (m 1274) – Cola (m 1013) – San Giorgio (m 751) – località Castello (m 316).
  Tempo di percorrenza: oltre 13 ore.
Attrezzatura richiesta: scarponi. Utile uno spezzone di corda da 20 metri e imbraco per la cresta finale.
Difficoltà/Dislivello: 4+ su 6, oltre 2500 metri
Dettagli: Alpinistica PD + / T6 . 
Orientamento non facile, pericolo oggettivo di caduta massi dalle pareti che lo cingono e insidioso dove bagnato il canyon della val Cavra (passi di III e  tratti molto ripidi e brevi traversi sdrucciolevoli). Una volta in cresta  i passi su roccia, talora decisamente esposti, non superano il III grado, ma la presenza di neve o ghiaccio aumenta molto difficoltà e pericolo nel superarli. La varietà di terreno e ambienti impone preparazione muscolare e  resistenza, dovendo passare da un lunghissimo vallone di sfasciumi a brevi segmenti di cresta aerea. 
  


A volte basta davvero far scivolare l'indice sulla mappa e puntare un luogo sconosciuto ma dal nome famigliare, per catapultarsi in una nuova avventura. Il paesino di Bresciadega è sempre stato una Zacinto per il sottoscritto, volendoci spesso tornare per rivivere le estati trascorse da ragazzino, nella baita degli zii. Ma ogni volta è stato un bagno di realtà: non possedendo nemmeno un rudere quei ricordi senza fissa dimora sono dispersi come minerali nel letto del fiume Codera. Un bel tuffo nel passato, tutto qua. Eppure l'idea di salire sulla punta di Bresciadega non è stata un buco nell'acqua, e ha reso possibile risvegliare memorie collettive più antiche della mia. Cenni di valli selvagge ormai tabù, sentieri destinati a sbiadire anche sulle carte, insomma pane per i nostri denti.
Cinque giorni dopo aver indicato un punto sulla mappa mi ritrovo con Beno in località Castello (m 312) alle 7, in marcia verso Codera. L'alba è in corso e non si capisce se il clima rimarrà rigido. Presto detto, i secolari gradini del 'Doss' non perdonano il nostro ritmo passeggio, nell'illusione di restare asciutti, e leviamo vari strati prima di continuare in maniche corte. Procedendo accanto a possenti castagni, tra cui l'Erbul de la Piciota rammento che nel mese di gennaio capita di raccoglierne qualche frutto ancora intatto per ingannare la fame. Beno, estasiato dalla buccia lucida di una castagna, ne fa grande scorta nelle tasche. Non sostiamo davanti alla ruspa arrugginita o al belvedere della cappelletta per le foto di rito che ogni viandante di passaggio ha scattato almeno una volta nelle sue visite in Valcodera, e tiriamo dritto oltrepassando la quiete dell'Avedèe (m 790, ore 1:30)
All'imbocco delle gallerie, invero un'opera di pilastri e tettoie a ridosso delle pareti vertiginose e franose dei Mot, una tradizione parentale mi impone di urlare con voce tonante il nome di una zia. Lo faccio rivolgendomi a Cii, un manipolo di baite abbarbicato sull'altra sponda del gran burrone che tiene alla larga macchine e parcheggi dalla mitica valle senza strada. Il dialogo tra i miei 'Mariaaa!' e le eco di ritorno lascia perplesso Beno il quale si sincera del mio rapporto con gli stupefacenti. Appurato che la zia non è in casa ci dirigiamo alle porte di Codera (m 825, ore 0:30), dove riempiamo le borracce scrutando il versante opposto della valle. 

La possibilità di evitare la val Ladrogno, guadagnando più direttamente quota con meno sviluppo attraverso vallette e pendii, è ghiotta, e teoricamente darebbe accesso diretto al crinale di nostro interesse. A mattino dell'abitato andiamo in direzione del Tracciolino, scendendo fino al primo ponte arcuato dove mi sporgo brevemente per apprezzare la gola più stretta della val Codera. Intanto il compagno di gita decide di prendere la sx al bivio,  una diramazione segnalata da frecce prive di indicazioni, pensando così di puntare al bivacco Casorate Sempione, ma gioca troppo d'anticipo. Il sentiero fresco di sfalcio entra in una boscaglia che fagocita anche i muri, per poi immetterci in un ordinato bosco di frassini. Poco oltre intercettiamo il Tracciolino: siamo sul lato sbagliato del Ladrogno e da qui al bivacco non si va! Sonnolenza e curiosità ci hanno condotto nei pressi dei canali in cui ipotizzavamo scorciatoie, senza crederci davvero. Allora insistiamo a sx, avendo a disposizione la celebre pista che collega la Presa con la diga di Moledana, svelta sia per sbirciare più avanti sia per battere i tacchi in ritirata. Questo segmento di tracciolino è ignoto a entrambi, notoriamente isolato a causa dell'interruzione per frana proprio in corrispondenza della val Ladrogno. Ci voltiamo solo per immortalare Codera, impreziosita dal Legnone sullo sfondo, dopodiché aumentiamo il passo e via via escludiamo i canali che troviamo dietro ogni ansa. Incontriamo uno, due, tre cunicoli, e sbucati fuori dall'ultimo, di un buio pesto data la lunghezza, siamo in vista della diga e delle strutture di servizio ora in rovina (Ganda, m 939, ore 0:50). Aggiriamo sulla dx il complesso cintato della presa, incuriositi dal meccanismo di filtraggio automatico delle acque raccolte, e dopo aver scavalcato un cancelletto di legno cerchiamo di seguire la traccia nel folto di quella che sembra una giungla. L'intrico si mangia tratti di sentiero e lo risputa decine di metri più in là. Al diradarsi della vegetazione ci appare l'affascinante pascolo di Beleniga (m 1034, ore 0:35), coi suoi muretti ordinati, gli steccati, qualche baita ristrutturata e stalle aperte per un trio di asini che ci segue a debita distanza. Le montagne che vorremmo scalare in giornata proiettano il loro contorno dall'altra parte del fiume, gettando nell'ombra le prospicienti Saline, dove anni fa il signor Romolo produceva lo squisito mascarpìn di capra. Dando le spalle a entrambi gli alpeggi ci inoltriamo in una macchia di abeti e betulle per poi imbatterci in una ganda rosso mattone. Siamo allo sbocco della val Cavra (ore 0:15), come scopriremo in seguito, un angusto canyon con varie biforcazioni che risaliamo per oltre 1000 m di dislivello, rincuorandoci ogniqualvolta degli escrementi provano il transito di animali, indubbiamente più abili di noi. Durante l'ascesa teniamo sempre la dx quando speroni affilati dividono il canale, ma alla seconda grande biforcazione conviene tenere la sx per evitare una delicata cengia con marcio nel tratto finale necessaria a rientrare nel solco principale. Ci divincoliamo tra sfasciumi mobili, terriccio umido, tratti di facile arrampicata su roccia levigata e arbusti che per quanto noiosi ostacoli ricompattano il suolo e all'occorrenza diventano comodi appigli. Passiamo un'eternità in questo vallone, che Beno nota essere la prosecuzione della faglia che genera la dirimpettaia  valle di Beleniga. Una porta bislunga fra massi appoggiati, un ultimo ripido canalino e dopo lo schiocco d'ali assordante di due galli cedroni in fuga si spalanca il panorama da torcicollo della neobattezzata bocchetta di Cavra (m 2094, ore 2:30). A chi mi precede, giustamente, dopo tanto ravanare, sembra di essere nel finale stereotipato di un film: ginepri a perdita d'occhio e una luce radente  che accarezza i fili d'erba dorati, il pian di Spagna coi suoi due laghi, una cresta morbida ma guarnita sul filo con blocchi di granito inframezzati da larici appena ingialliti dall'autunno, e un'infinità di montagne in tutte le direzioni. Avvolti dal sole c'è l'imbarazzo della scelta. Tra una foto e l'altra ci spostiamo a SO, saltellando e strisciando fino a toccare, per la cresta di blocchi di granito, il Mot Luvré (m 2047, ore 0:25), poi torniamo alla bocchetta per nutrirci e abbeverarci. Quindi, credendo che la fine della gita non sia lontana, schiacciamo anche un pisolino, cullati dal frinire delle cicale. Al risveglio ci accorgiamo che fa sempre più caldo. Non una canicola siciliana, ma almeno un'afa sarda! Prima di riprendere l'esplorazione ci togliamo braghe e maglietta, e abbigliati delle sole mutande attacchiamo la punta di Lavrina, una cima di poche pretese, che può essere resa più divertente stando  cocciutamente sul filo di cresta. Geograficamente non lontani dai celebri spigoli della Bondasca, anche qui le lame di granito, seppur decisamente meno appariscenti, creano un ambiente suggestivo e aereo: lo conferma il brevissimo spigolino che inaspettatamente mi obbliga a raccogliere le energie mentali, prima di cavalcarlo e arrancare al seguito di Beno. Raggiunta la cima di Lavrina (m 2313, ore 1) ci affacciamo all'inospitale val Salubiasca, un vallone bordato superiormente da compatte tribune di placconate. In fondo si distinguono alcuni tetti di Bresciadega, gli stessi che nel '44 bruciavano durante i rastrellamenti. Testimonianze di gente del novatese e limitrofi mi hanno ragguagliato sulla presenza di un vecchio sentiero segnato e per niente difficile da asciutto. Tuttavia avvicinandomi al ciglio, arricciato come un cornicione di neve, mi paralizza e insieme esalta l'immagine dei primi salitori: escursionisti, pastori o addirittura contrabbandieri – in Valchiavenna discretamente tollerati nel secondo dopoguerra – che carichi delle loro bricole andavano su e giù da questo abisso, dovendo scampare ai finanzieri della caserma di Bresciadega. Mentre lasciamo la quota 2313 m si delinea la facciata NO della nostra meta, ma capire il percorso da seguire è ancora un terno al lotto. Per cespi e pietrisco approdiamo alla forcella dei Pianei (m 2233, ore 0:15), dove giunge il sentiero della val Salubiasca, e dove scollinava decenni orsono Romilda Dal Prà, celebre staffetta partigiana.

La  nostra attenzione torna magneticamente sulla punta di Bresciadega e sulla sua anticima, che a occidente parrebbe offrire tre vie d'accesso. 
Da sx: 
- terrazzi e scarpate di visega intramezzate da salti di roccia e spruzzate con discontinuità di neve;
- un canale roccioso foderato di neve e ghiaccio;
- una riva di placche, quasi interamente coperta di nevischio. 

Tentare l'opzione con meno neve non sembra una cattiva idea e così facciamo. Presto la progressione si interrompe in un dedalo di canali scivolosi e ci guardiamo attorno spaesati, in cerca di suggerimenti. Ne arriva uno a indurci in tentazione: quindici metri di catena emersa dalla neve sulla riva di placche. Beno decide di fare un sopralluogo e scende per una serie di solchi, dapprima speranzoso che almeno una porti in cima, poi pensando di raggiungere il canale con una calata in doppia a un'altezza tale da evitare rogne sottostanti. Altra ipotesi la ricerca di un traverso fino alla catena. 
Nel frattempo l'attesa si fa snervante, il posto, se non mi metto a gironzolare, non è pericoloso, ma per non gelare rompo letteralmente il ghiaccio staccando pezzi di neve congelata dal terreno e, dopo averla frammentata in ostie per eliminare fili d'erba o particelle di polvere intrappolati, comincio a masticarla come se fosse una granita. Scorgo Beno di ritorno, con prudenza degna di un felino, e mi informa che i passaggi sono troppo rischiosi, gli appigli restano in mano e nei punti cruciali ci sono scivoli di ghiaccio. Immaginiamo allora una via che ancora non si vede e che non avevamo ipotizzato dalla forcella. Per vagliarla serpeggiamo tra i ciuffi d'erba del pendio fino a scavalcare la cresta spartiacque con la val Salubiasca. Lì dietro, in pieno N, lo scenario è da brividi: una placca poco inclinata ma rivestita di neve e ghiaccio incontra una parete leggermente strapiombante, e proprio nell'intersezione sale in falso piano una cengia di roccia pulita, larga una spanna: il giusto per camminare. Una ventina di metri e a sbarrare la strada è un camino verticale che dopo un paio di minuti  di arrampicata acrobatica si rivela inagibile. Così dal basso cerco di aiutare Beno nel difficile compito di ridiscendere slegato e non lasciare i piedi a penzoloni nel vuoto. 
Respinti anche qui torniamo sui nostri passi e ci abbassiamo fino a imboccare il canale che costituiva la seconda opzione. A metà dello stesso notiamo un traversino nevoso che porterebbe alla catena. Lo ignoriamo in quanto è tutto ghiacciato e non abbiamo i ramponi. Inoltre se l'ausilio della catena andasse a depositarci in mezzo al nulla sarebbe l'ennesima impasse. L'unica è continuare su per il canalino, rivelatosi la parte più ostica della gita. Un patina di verglass copre un ripido camino, probabilmente facile se asciutto, ma che in tal veste costringe ad un'arrampicata scimmiesca dove le punte degli scarponi devono affidarsi a microtacche ghiacciate, mentre le dita delle mani assolvono alla funzione di picozza e/o nut. Seguo a ruota Beno e tribolo anch'io prima di riuscire a muovermi di un centimetro. Issandomi con le braccia e sfruttando fessure coi piedi me la cavo. Dopo un delicato traverso a dx sotto uno spiovente, il canale si fa erboso e ci regala il filo. Ancora una volta il sole ci soccorre. Provo a riscaldare le mani raggrinzite dal freddo nella posa di chi recita un padre nostro. Ma non è finita: la cima è ancora lontana e alcune anticime e brecce ci daranno filo da torcere. L'esposizione è tanta e la stanchezza comincia a rammollirmi.
Ecco un primo spuntone da salire, poi giù per una placca esposta alla successiva breccia. La guglia seguente, ovvero la quota m 2537, non va scalata per il difficile spigolo O, ma aggirata  da dx per una cengia, quindi un pendio.
Torniamo in cresta. A SO cala un canalone fino all'alpe Ladrogno. Ne teniamo conto per la discesa ma, giunti sulla successiva elevazione, vediamo che non è la vetta. Dobbiamo scendere in una breccia (II, esposto), ostruita al centro da uno spuntone. Lo aggiriamo da sx e ciò ci costringe a scendere una placca di 4 metri con micro tacche, stavolta di nuda roccia.
Non è finita qui, fa capolino un'altra breccia di blocchi! Attraversarla è abbastanza pericoloso e il volo di 10 metri, nel caso si distaccasse un appiglio, sarebbe più che sufficiente a lasciarci le piume.
Eccoci finalmente sulla cupola d'arrivo. L'ometto di sassi ci indica la vetta, a cui arriviamo per un declivio d'erba e sassi (punta di Bresciadega, m 2666, ore 1:30): siamo nell'esatto punto d'incontro tra val Salubiasca, d'Arnasca e Ladrogno.
È tardi e il sole si avvicina all'orizzonte, mentre le nebbie montano sulle valli. Da dove si scenderà? Dopo una perlustrazione lungo lo spartiacque E, ci risolviamo a scarpinare giù dal primo vallone utile appena sotto la cima, che sembra abbassarsi in modo promettente nell'imbuto della val Ladrogno. Scendiamo rasentando la dorsale che divide questo canalone da quello più largo, che avevamo notato calare agevolmente fino all'alpe, ora fuori portata. In corrispondenza della biforcazione della vallaccia in cui stiamo calando, prendiamo il ramo di sx poichè l'altro è interrotto da un salto di rocce. Chissà se arriverà fino in fondo.
Ad ogni calo di pendenza segue un tratto ripido e tale combinazione cela il prosieguo del cammino. Ad un tratto, molto vicini alla vallata principale, siamo dinnanzi ad un'interruzione. La tensione cresce e il tramonto è vicino: si prospetta la risalita in vetta e una notte all'addiaccio. 
Disarrampichiamo con molta attenzione per una breve fascia di rocce (passi di II) quindi Beno mi dice di aspettare mentre dà un'occhiata sotto. Anche questo ramo della valle sembra arrestarsi. Poi un urlo: «È fatta!». Beno mi invita a raggiungerlo all'inizio di una cengia che consente di entrare nel ramo di dx al di sotto del salto di rocce che lo sbarrava in alto. La percorriamo, e solo 3 metri di disarrampicata su placche umide (II+) segnano la fine delle difficoltà alpinistiche di giornata.  Ci portiamo a S, a ridosso del solco principale della valle che dalla porta dei Pianei cala in val Ladrogno e lo seguiamo (SO). Qui troviamo i bolli bianco rossi del sentiero. Perdiamo quota fino a m 2150, lì traversiamo a sx (S) ai piedi dei contrafforti rocciosi dei Magnaghi che hanno da poco scaricato pericolosi blocchi. Erba e infestanti crescono e giungiamo al bivacco Casorate Sempione (m 2100, ore 1:15) senza l'evidenza di una traccia e affidandoci ai ricordi di Beno che qui è stato più volte e non ha mai visto i sentieri così malmessi.  Il tramonto sembra dilatarsi e l'ipnotico lago di nebbie che cela il Lario viene colpito dagli ultimi raggi. Un paio di tazze di tè bevute a goccia e torniamo a divallare.
L'erba è incredibilmente alta, piena di trappole dove mettere i piedi in fallo, e complica la discesa, tutta da fare seguendo più i ricordi di Beno che i bolli. Lui infatti impreca contro l'abbandono di queste rotte e perché l'ora blu sta per finire. Un'ora micidiale sia per bellezza sia perché siamo a corto di elettrodomestici: un cellulare scrauso con funzionalità torcia e una macchina fotografica digitale con funzionalità luce verde d'assistenza all'auto focus, che dura un secondo ogni volta che Beno preme il pulsante di scatto. Questi nostri aggeggi dovranno bastare per le prossime quattro ore, di cui tre al buio. 
La buona novella è che ci sarà luna piena. In effetti la prima fase di discesa, fino all'alpe Ladrogno, avviene placidamente sotto il banco di nubi che rifrange e meglio diffonde la luce lunare. Malgrado ciò l'ingresso nella pineta sottostante l'alpe non lascia scampoli luminosi e seguendo l'esempio dell'apripista mi armo di rami di larice usandoli come bastoncini da passeggio per attutire i contraccolpi dovuti alla minore percezione del punto d'impatto del piede col terreno: nel folto degli alberi si è fatto del tutto buio! 
Col supporto delle nostre luci di fortuna cerchiamo di non perdere i bolli ma in men che non si dica ci troviamo fuori sentiero e dobbiamo faticosamente riprendere qualche decina di metri di quota. I muscoli e le articolazioni cominciano a lamentarsi giacché in carenza di luce ci muoviamo scomposti e le fatiche mattutine vengono a galla. Ci portiamo sulla sx orografica della val Ladrogno, superando un corso d'acqua ottimo per placare l'arsura incessante. Dopo un lungo traverso a mezza costa ecco la baita isolata di In Cima al bosco (m 1268, ore 2:30)
Poco sotto è il bivio Codera-Cola. Optiamo per la seconda, andando a calcare una via a tratti gradinata, che andrebbe goduta alla luce del giorno..o di un frontalino! 
Mi sorprendo a ringraziare gli indigeni ottocenteschi per queste opere che passano la prova del tempo. Quanto a noi non vogliamo fermarci nemmeno per spiluccare gallette sbriciolate, e quando apriamo lo zaino è solo per estrarre la cartina e verificare il percorso, a malapena riconoscibile nella notte. La fame e i piedi dolenti si contendono anche i recessi dei miei pensieri, tant'è che riesco a scambiare le luci di Codera per quelle di Verceia. Il passo è nettamente più lungo della gamba, e mancano ancora due ore e mezza per Novate... se va tutto liscio. 
Beno soffre in silenzio le stesse pene ma conoscendo a menadito il tragitto, e prefigurando falsipiani e tabelle orarie, non demorde. Ed è con meraviglia nella voce che lo sento riconoscere le sagome delle betulle nei prati più alti della Cola (ore 1018, ore 0:30). Camminarci sul morbido è una liberazione. L'inquinamento luminoso del fondovalle ci rischiara la via giù per la china, alla ricerca del Tracciolino. Una volta intercettato lo percorriamo  a luci spente, di tanto in tanto arpionando con le dita i fili di ferro delle protezioni. I 1500 metri preannunciati per San Giorgio sembrano molto più lunghi e ormai le parole sono ridotte al minimo, trasformate in mugugni. All'improvviso una deviazione, un cartello di divieto per bici a marcarla, e una piccola targa sottostante indica San Giorgio. Il conforto è tale che Beno comincia a delirare parlando di kebab e peperoni ripieni mentre io, messo peggio e senza più fantasia, mi azzardo a dire che mi accontenterei di pane e acqua di qualità, in quel momento ignaro che una mela giace sul fondo del mio zaino. Raggiunto San Giorgio (m 748, ore 0:45) troviamo ristoro alla fontana illuminata da un fascio di luce arancio. L'acqua, davvero buona, pare proibita quando un cane di piccola statura ma rabbioso ci dà tutt'altro che il benvenuto. Si scaglia a più riprese sulle nostre caviglie, ma girato l'angolo desiste e lo sentiamo abbaiare in lontananza. A quel punto siamo colpiti da quella che Beno definisce provvidenza: «un albero di fico!» Senza pensarci due volte ne frughiamo i rami. Uomini che al buio annaspano tra le fronde di un albero: la drammatica scena ha un che di primordiale. A nostra discolpa stiamo mendicando quel minimo di cibo per darci la carica e affrontare un'ultima oretta zoppicante. Dopo aver trovato un solo frutto maturo, che siamo costretti a smezzare, per un attimo mi sento quasi sazio. Trenta secondi più tardi Beno, preso dall'euforia, esclama: «guarda, una vite!» Nell'oscurità si staglia un pergolato d'uva, e come dei miracolati subito ci diamo istruzioni su come raggiungere i grappoli. Salgo su un muretto e provo ad agguantare un grappolo che si disfa tra le mani, e mentre il compagno tenta invano di recuperare gli acini sparsi sul terreno ci riprovo e stacco due bei graspi. Propongo di prenderne ancora ma vengo frenato, è abbastanza così. Ci allontaniamo da San Giorgio in silenzio, trangugiando l'uva, forse acerba, di sicuro asprissima, eppure non ne ho mai mangiata di così saporita. Raccontandoci che comunque non sarebbe mai maturata, aggiriamo da dx promontorio e, una volta incrociato il sentiero, inciampando e stringendo i denti, perdiamo gli ultimi 500 metri di dislivello, arrivando nei pressi della cava di granito alla base della val del Monte. Da qui risaliamo l'impronunciabile via asfaltata 'Lungo Codera sinistro', fino alla svolta in Via del Castello, e in cinque minuti siamo al parcheggio in località Castello (m 312, ore 1:30) dove è possibile lavarsi alla fontana. 
Tolti gli scarponi, non può esserci miglior esito per il ritorno dalla punta di Bresciadega che un bagno nell'acqua gelida per dare un pò di sollievo alle piante dei piedi e consolarci in anticipo: a quest'ora di notte non troveremo nessun esercizio aperto per acquistare un piatto caldo.

Da Avdedée, al centro, il Mot Luvré.


Verso Codera.


Codera dal tratto di Tracciolino tra la val Ladrogno e Ganda.


Il tratto di Tracciolino tra la val Ladrogno e Ganda.


Nelle gallerie più buie procediamo a colpi di flash!


Una delle baite di Beleniga.


Le pietraie ricoperte di alghe arancioni allo sbocco della valle Cavra.


Su per la valle Cavra. Dirimpetto la valle di Beleniga e, a sx, il pizzo di Prata, al centro il monte Beleniga.


Un passo di III su rocce bagnate nell'alveo della valle Cavra.


Rocce umide, erba, arbusti e cenge: l'inospitale valle Cavra.


Singolare grotta in valle Cavra.


Vista dalla bocchetta di valle Cavra.


Dalla bocchetta di valle Cavra. Da sx: cima di Lavrina, punta di Bresciadega (anticima O), Magnaghi e... Sasso Manduino.


Vista dal Mot Luvré.


Vista dalMot Luvré.


Vista sulla val codera dalla cima di Lavrina.


Il canale ghiacciato per la punta di Bresciadega.


Il canale ghiacciato per la punta di Bresciadega.


Usciamo al sole sul versante di val Ladrogno della cresta occidentale della punta di Bresciadega.


Lungo la cresta O della punta di Bresciadega, scendendo nella breccia a sera della quota m 2537.


Lungo la cresta O della punta di Bresciadega, scendendo nella breccia a sera della quota m 2537.


L'anticima O della punta di Bresciadega.


In vetta alla punta di Bresciadega.


Tramonto in val Ladrogno.


Al bivacco Casorate Sempione.