sabato 31 ottobre 2020

Cima d'Aquila (m 3127)

La cima d'Aquila e i nostri tracciati di salita e di discesa visti dall'alpe Scaradra di sotto.


Parrebbe che lunedì sia caduta un sacco di neve in alto: 50-60 cm a m 2400 sulle Retiche e sulle Lepontine, 70 cm sulle Orobie. Sulle Orobie ne è rimasta tanta di certo, la si vede. Il Roby Ganassa è stato a sciare in val Gerola. 
Sulle Retiche e sulle Lepontine però ho il presentimento che il sole di questa settimana l'abbia già giustiziata, per cui decido di lasciare sci e ciaspole a casa per non rigarli e partire con Gioia alla scoperta della val Camadra (comune di Blenio - Ticino).  
Ma di questa decisione ce ne pentiremo sempre più durante l'ascesa alla panoramicissima cima d'Aquila, vetta a m 3127 che ha ricevuto ufficialmente nome solo nel 2017, come riportato nel libro di vetta custodito sul montante della luccicante croce d'acciaio che ne addobba la sommità.

Base ©swisstopo.ch

Dall'autostrada Svizzera che sale verso il Gottardo da Lugano/Bellinzona, ci stacchiamo a Biasca, quindi risaliamo la lunga valle di Blenio e, poco dopo Olivone, prendiamo a dx la rotabile che, infilandosi in una galleria, accede alla sospesa val Camadra. Alle case di Aquilesco iniziano tra i prati i tornanti per il lago di Luzzone (m 1606), bacino artificiale generato da un'alta diga ad arco. Ne percorriamo in auto l'aereo coronamento per infilarci in uno stretto tunnel che ci deposita sulla sua sponda meridionale. Uno sterrato costeggia il lago tra larici e abeti. Lasciamo la macchina nel piccolo spiazzo in corrispondenza di un enorme larice. Qui cominciamo a camminare sul sentiero per la val Scaradra. Dei cartelli danno indicazioni per l'alpe omonima e per il passo Soredra, nostro iniziale obbiettivo: vorremmo infatti da quel valico ammirare lo Zervreillahorn, un modesto m 2897 che pare aver rubato le forme al Cervino e che per esser avvicinato con breve escursione richiederebbe un viaggio in auto esageratamente lungo.
Inizialmente molto ripida, la pendenza cala quando superiamo la soglia sospesa della val Scaradra. Ai m 1800 dell'alpe Scaradra di Sotto già inizia la neve. Siamo in pieno nord, ma non me l'aspettavo. Il secondo gradone della valle lo guadagniamo per una ripida rampa che schiva i salti rocciosi. 35 cm di neve fresca.
Una buon'anima ha battuto la traccia per noi. Il sole ci bacia ai m 2180 dell'alpe Scaradra, disseminata di grandi massi. Il rifugio si trova poco a N su un balcone naturale. A S, come fortificazioni, i resti dell'antica morena del Ghiacciaio di Sorda.
Abbiamo già infilato le ghette, ma la neve è alta e ci bagna i pantaloni. Il cielo è impreziosito dai cirri velocemente trasportati e ricombinati dal vento.
Davanti a noi, presenza fissa dall'alpe Scaradra di Sotto, è una cima tozzamente conica, di cui non riesco a valutare né altezza, né distanza. 
Sul nevoso cordolo della morena del ghiacciaio seguiamo le orme fino a m 2500, poi capiamo che il battispista che ci ha risparmiato tanta fatica fin qui si deve essere arreso ai 50 cm di neve fresca e deve aver battuto ritirata.
A sx, non lontano, è il passo di Soreda. Però a dx c'è sia quella bella cima conica, che la possente barriera rocciosa del pizzo Cassinello. Così rinneghiamo le nostre intenzioni delle 8 di mattina e puntiamo più in alto.
Affondando fin sopra il ginocchio alle 12:15 siamo a pranzo del centro del ghiacciaio, accarezzati dal sole che ci fa tornare il sangue alle dita dei piedi semi congelate.
La parete del pizzo Cassinello da qui non offre punti deboli, così puntiamo a dx, dove quella cima conica, senza nome sulla mappa in nostro possesso, merita una visita anche solo per l'estetica. Poi chissà che panorama.
Attraversato il ghiacciaio, c'inerpichiamo sulla sempre più ripida, fredda e ombrosa spalla N (fino a 35°).
Qualche metro un po' gelato mina la tranquillità di Gioia, che senza ramponi preferisce legarsi con la corda per gli ultimi passi.
All'improvviso il sole in faccia e una croce d'acciaio che sberluccica addobbata con candelotti di ghiaccio ci danno il benvenuto sulla vetta.
Un tondo di rame addobbato in cui a rilievo è un aquila e la scritta 2017, spiegano il suo nome: come leggiamo nel libro di vetta, infatti, solo nel 2017 le è stato concesso un nome ufficiale, cima d'Aquila appunto, come il rapace, ma anche come il paese a m 774 in val di Blenio.
Dalla cima d'Aquila (m 3127, ore 5 - anche se noi nuotando nella neve ci abbiamo messo qualcosa di più) il panorama è sterminato: dal Monviso, al Rosa, dal Tödi al Tambò, al Bernina e al Roseg, fino alla vicina Adula, dove dai m 3400 della vetta tre sciatori stanno disegnando serpentine nella neve polverosa riempiendoci d'invidia. Ah, lo Zervreilahorn? Lo si vede anche da qui, ma essendo che cime più elevate lo circondano fa una ben più magra figura rispetto a come si presenta nelle fotografie scattate da N.
Per la discesa sfruttiamo la cresta E, meno ripida, più soleggiata e panoramica. Poi ghiacciaio e la traccia dell'andata.
Cosa insolita per noi, siamo di ritorno all'auto che non è ancora buio. Nuvole infuocate colorano il lago di Luzzone e accentuano l'arancione dei larici che il tramonto sta spogliando degli aghi per consegnarli all'inverno.

A m 1900. A sx la punta di val Scaradra e il Torrione di Nav.

Tra luce ed ombra.

A m 2100. Sullo sfondo uno spicchio del lago di Luzzone.


Sul ghiacciaio di Sorda 60 cm di neve fresca.

In vetta alla cima d'Aquila.

Panorama dalla cima d'Aquila.

La cima d'Aquila dal ghiacciaio di Sorda.

Le ultime luci in val Scaradra.

Ma quanto è grande il tronco di questo larice?

Tramonto da cartolina sul lago di Luzzone.


sabato 1 agosto 2020

Sasso Manduino (m 2888) - Via Schiavio

Dal Trivio di Fuentes spicca nel groviglio di montagne che fanno da spartiacque tra Valtellina e Valchiavenna: il Manduino pare una cima delle Dolomiti. Invece è uno scoglio di granito, di una bellezza così netta e immediata che una persona di via potrebbe indicarlo ed esclamare "il famoso Badile!" Ebbene no, coi suoi camaleontici 2888 metri il Sasso è una meta più modesta e cionondimeno un indubbio spasso.

 Tramonto sullo spigolo SO del Sasso Manduino.

Partenza: Mezzolpiano (m 300).
Itinerario automobilistico: da Novate Mezzola (circa 10 km dal trivio Fuentes) imboccare
sulla dx, poco dopo la stazione ferroviaria, la strada per la frazione di Mezzolpiano (m 300), dove si posteggia l’auto.
Itinerario sintetico: Mezzolpiano (m 300) – San Giorgio (m 748) - Tracciolino - Cola (m 1018) -  In Cima al Bosco - alpe Ladrogno (m 1700) – Sasso Manduino (m 2888) per lo spigolo O - discesa per la via normale - alpe Talamucca (m 2070) - Moledana (m 1025) - Verceia (m 200).
Tempo  previsto:  15 ore per l’intero giro.
Attrezzatura richiesta: corda (60 metri), casco, imbraco, cordini, fettucce, friend (una serie fino al 2), nut, eventualmente ramponi per l’attacco. Soste attrezzate.
Difficoltà: 4.5 su 6.
Dislivello in salita: oltre 2600 m.
Dettagli: AD+. Scalata molto interessante su roccia (IV+) di buona qualità (tranne nell’avvicinamento allo spigolo). 9 tiri di corda dalla bocchetta del Manduino. Se li si fa lunghi ne bastano 7.
5 calate da 15, 30, 30, 15, 30 sulla normale (versante E).
Accesso lunghissimo.

  Mappa del percorso (in realtà noi non siamo saliti da Codera, ma questa l'avevamo già in casa pronta!)

  Ci troviamo nel tardo pomeriggio a Verceia, tutti a nostro modo cotti dalla giornata. In quanti siamo? Troppi, secondo gli standard alpinistici ufficiali, e non al completo. Così, ancora prima di prendere il pane, si comincia a bere. In realtà per Cavallo e Sara, in trasferta dal luinese, è la continuazione del brindisi iniziato a mezzodì in val Gerola. Beno chiama Gioia al telefono, dice che sta arrivando e di non esagerare con la birra, da che pulpito! Spostiamo gli occhi gli uni sugli altri, i bicchieri ormai seccati, e ordiniamo l'ultima spillata. Una volta riuniti decidiamo di darci refrigerio al lago. Quasi forziamo la portiera di una macchina che assomiglia alla nostra, chiedendoci perchè la chiave non funziona: abbiamo proprio bisogno di un tuffo. Presto detto. Al lido, davanti alla casa degli svizzeri, ci immergiamo nell'acqua tiepida. Questa raggela non appena la spiaggia sprofonda e viene raggiunta dalle correnti del Vallone, infido torrente che si immette nel lago di Mezzola. Notiamo dei ragazzini che si buttano da uno spiazzo a livello della strada vecchia, al di qua del guard rail. "Andiamo a buttarci", propone Beno. Lo facciamo solo noi uomini, sprezzanti dell'ignoto, e tra un banzai e l'altro le donne in ammollo venti metri più in basso ci guardano, sagge nel portare avanti la conservazione della specie. 

 Raccolti gli stracci, e lasciata una macchina a Verceia, andiamo con l'altra nei pressi della cava di Val de Munt. Qui ci incamminiamo per San Giorgio, carichi all'inverosimile. L'afa si fa presto beffe della freschezza trovata al lago e cominciamo a grondare come in una sauna. Dapprima chiacchierando poi condannando il caldo sorpassiamo una parte di sentiero franata di recente. Qualche alito di vento ci aiuta al crepuscolo, nei pressi di alte mura, che sembrano rovine di un castello. Si tratta invece di costruzioni legate a una cava in quota, nascosta sulla sponda della val Revelaso, e la cui conca biancastra è ben visibile dall'Avedee. Ecco San Giorgio col suo clima di festa, della musica nell'aria, bambini e ragazzine che giocano. Ci abbeveriamo, stringiamo i lacci delle scarpe e continuiamo fino ad intercettare il Tracciolino dove teniamo la salita, seguendo le indicazioni per la Cola. Devono essere circa le dieci quando raggiungiamo la quota 1000 metri del borgo. É deciso, dormiremo davanti al sagrato della chiesetta. A sud est la luna prende il colore arancio della sabbia del deserto, sempre a spasso sulle alpi. Ci laviamo a pezzi o entrando direttamente nel lavatoio. Un branco di hippies. E mentre asciughiamo all'aria mite del posto mangiamo riso e Storico ribelle. Condividiamo anche un po' della mia Petuccia dal Friuli, mentre della grande zucchina del mio orto nessuno si fida. Per dolce il croccante alle mandorle di Sara. Dopodiché voltiamo l'angolo e raggiungiamo i nostri sacchi a pelo. Qualche zanzara cerca di dormire con noi ma la respingiamo. In sottofondo l'unico abitante che si fa vivo tiene la tv accesa fino all'una di notte, alternando sbadigli animaleschi al suono impertinente delle pubblicità. Mi domando come sia possibile, e vorrei avere la forza di alzarmi e sabotargli l'antenna. Alle 3,30 la sveglia. Sara si mette a sedere come una molla, anche noialtri più che uscire dal sonno prendiamo a divincolarci nel sacco, cercando la posizione eretta. L'unico veramente addormentato è Beno, che dormirebbe anche sotto le campane a festa. 

Una rapida colazione a caffè latte e siamo pronti per completare l'avvicinamento. Cavallo, in pantaloncini attillati da ciclista e camicia da messa, viene sorpreso dal signore della tv accesa. È ancora sveglio! Non si capisce da dove proviene la voce, nel buio pesto, ma chiede "'n du vet?". Appurata la nostra meta, approva con un ultimo mugugno. La risalita della val Ladrogno è lunga, non c'è storia. Al buio mi sembra di perdere piu volte l'orientamento anche se lo stretto sentiero è uno, non si può sbagliare. Il frontalino attira nugoli di insetti così lo tengo in mano. Le corde da 60 metri nello zaino e tutto l'ambaradam si fanno sentire. Per gli altri stesso discorso, tant'è che in una scena un po' surreale vedo i compagni disfarsi delle tolle di riso avanzato, rovesciandolo alla mercè dei molti ungulati che abbiamo sentito scuotere le fronde nell'oscurità. Nei pressi di in Cima al Bosco, dove si pensava di dormire inizialmente, scopriamo che non c'è acqua bensì un prato vorace pieno di insetti carnivori. Ci è andata bene. Procediamo a strappi o falsipiani, incuneandoci nella val Ladrogno e bagnandoci le suole nei suoi ruscelli. Via lattea e stelle cadenti ci sormontano. A sinistra cerco con insistenza la sagoma della punta di Bresciadega, ma vedo solo Mot Luvré e cima di Lavrina fondersi con la linea crestata delle pinete e dei lariceti. L'alba ci prende su alcune dorsaline in zona alpe Ladrogno. Quando sembriamo ormai fuori traccia, dopo una ravanata fra radici, erba alta e buascia di cavallo, rinveniamo il sentiero. Sopra di noi un concentrato di luci segnala che il Casorate Sempione ha ospiti svegli. Ci terremo sulla destra finché voltandoci avremo il bivacco alle spalle e un trio di persone alle nostre calcagna. Davanti a noi l'intaglio di partenza della via Schiavio e il Manduino, che sotto cima, sul versante nordest è caratterizzato da cenge e venature parallele di roccia chiara. Dobbiamo disegnare un itinerario non bollato, fra rododendri, mirtilli un po' appassiti, roccette, zolle erbose, anticipando eventuali inciampi in buchi nascosti alla vista. Dopo un canale instabile, circondati da genziane purpuree, e alcune comode placche, scovando qua e là dei fiori di arnica, una facile paretina fa guadagnare il dorso di una costola rocciosa abbastanza esposta. La seguiamo fino a un caminetto da disarrampicare. Dietro di noi il trio ha colmato molto rapidamente la distanza e scambiamo qualche parola amichevole. Durante l'ultima ora è stato un gran passamano delle tre paia di bastoncini che lungo la via abbiamo cercato di distribuirci per agevolarci. Mi ritrovo a stringerli nel palmo tutti quanti e dalla sommità del camino li passo a Beno e Sara cercando di non trafiggere nessuno. Per far sì che tutti si godano la giornata, decidiamo di appostarci appena sotto l'attacco, su terrazzate di roccia lievemente inclinate, e farci precedere dal trio milanese-comasco. Il piano prevede rifocillarsi e passare almeno un'ora a gozzovigliare. Notiamo però che il loro incedere è più tranquillo del previsto. Lo Storico ribelle ci ha rigenerato, e senza dire nulla tutti si stanno preparando. Mentre la cordata di vicini si sposta a sinistra del primo canale di rocce semimobili, noi lo risaliamo slegati tenendo il lato opposto finché possibile. Beno poi ci aspetta sopra un salto e mi chiede di evitarlo insieme agli altri aggirando una linguetta di neve sulla destra per poi ricongiungersi grazie a un traversino. Da lì ci portiamo a uno spiazzetto, alla base dello spigolo, dove un caratteristico foro fa da spioncino su un vallone laterale piuttosto dolce della altrimenti vertiginosa e immane parete ovest. È il momento di tirare fuori le corde. Beno sale da primo e dietro di lui la corda blu con Cavallo e Sara, mentre la rossa è mia e di Gioia. In quest'ordine inizia il divertimento. Siccome il sole sta battendo sul versante opposto, facendo bollire la roccia, lo spigolo si trova nel punto più riparato possibile e alla quota 2600 circa abbiamo infilato giacche o pile. Io e Beno saliamo con scarpe da trekking leggere, scegliendo la comodità ad ogni costo, mentre gli altri decidono di massaggiarsi i piedi con le scarpette da arrampicata: la roccia è abbastanza ispida da soddisfare tutti i palati. L'unica maniera di descrivere l'arrampicata è 'divertimento allo stato puro'. La vista è grandiosa, il luogo quasi confortevole. Essendo in coda con Gioia chi ci precede deve liberare soltanto la propria corda dai rinvii che poi smonterò. "Filo rosso o filo blu?" La spensieratezza si spreca e tuttavia ci mantiene concentrati, disinnescando qualsivoglia fremito. Poco dopo l'inizio dell'ascesa raggiungiamo il trio e ci salutiamo. Le voci di Beno e del loro capocordata ogni tanto piovono confuse dall'alto, sicché ci aiutiamo a distinguerle. Cavallo e Sara sono due caprette ma io e Gioia non siamo da meno. Ogni volta che ci ricompattiamo mi sposto avanti per dare corda a Beno, in due occasioni col secchiello. Siamo una bella squadra, sollazzati al punto che propongo di farci un autoscatto. Ormai prese le distanze dall'altra cordata ci portiamo all'altezza della loro guida, anche lui sorridente e molto felice della gita. Un ultimo camino acrobatico e uno dopo l'altro ci ritroviamo impoltronati sulla vetta. Si crepa di caldo, e in men che non si dica metto la sola camicia da matrimonio. Cavallo estrae prontamente delle scamorzine che avranno vita breve. Poi a turno, sciolte le briglie, ci spostiamo qualche metro più sopra, sul cocuzzolo della vera cima, ogni volta dimenticandoci di portare il Corti per la foto di rito. 

Il Sasso Manduino è un sasso per davvero. E va cavalcato. Avendo messo in archivio la via mi fa un po' specie stare lassù, vicino a Beno che se la spassa come un assatanato. Una volta arrivati i vicini di scalata, Beno suggerisce loro quante calate fare, conoscendo la zona a menadito, e offre di usare la nostra corda già allestita. Dopo un po' di remore accettano. La discesa in doppia dalla normale avviene senza imprevisti, se non quando il nodo galleggiante di giunzione tra le corde trova quell'infinitesimale percentuale di incastro. La tecnica di recupero di un capo e poi dell'altro non funziona e Beno è costretto a risalire per districarla. In fondo un canale depositerebbe una volta per tutte nella val dei Ratti, ma un sentierino erboso a noi noto consente di evitarlo. Nel canale di marciumi sta per calarsi l'unica ragazza del trio che all'improvviso lamenta una sassaiola da parte nostra. Stupiti, dato che siamo su prato e al di fuori del canale, gli comunichiamo che non siamo artefici del disgaggio, risolvendo l'equivoco. Intanto lei urla il nome dei propri compagni a gran voce. Si avverte una nota di tensione, e come biasimarla: il rischio di una grandine di pietre non piacerebbe a nessuno. Giunti in fondo, decine di metri più in basso rispetto all'uscita del canale, stiamo per traversare la valle in direzione alpe Talamucca. Più sopra vediamo i due dell'altra cordatina armeggiare con le doppie che hanno preferito al sentiero, mentre la ragazza li sta raggiungendo. All'improvviso un macigno grande quanto un pallone da rugby saetta a pochi metri dalla testa di Sara che per fortuna non aveva ancora tolto il casco. Di buona lena siamo tutti invitati a levarci da lì sotto. La discesa procede su ginocchia stanche, ma all'insegna del buonumore. Di tanto in tanto guardiamo a che punto sono quelli dietro di noi, sempre più lontani, realizzando che il generoso passaggio in auto offertoci in cima - col loro veicolo dal Tracciolino fino a Verceia - non potrà avvenire. 

In vista della località Camerate, un belvedere con una baita, si dipana una fila di trenta asini. Prima di raggiungerli, sperando di mangiare un boccone in loro compagnia, mi riempio le guance di Achillea da masticare, amara il giusto per non pensare temporaneamente al cibo. Finalmente incrociamo gli animali accarezzandone qualcuno, e ai piedi dello stallone abbiamo una brutta sorpresa: un asino morto stecchito, le gambe ritte, la lingua fuori. Sembra un giallo, in quanto non presenta segni di ferite o collusioni. Dall'altra parte una seconda carcassa, meno recente. Vipere? Boccone avvelenato? Non si sa. Nel frattempo ha preso a piovigginare e siamo costretti a rimandare la merenda. La facciamo sotto le frasche di un possente abete. Inzuppati aspettiamo di asciugarci e che il temporale in agguato scarichi da un'altra parte. Trangugiamo quasi tutto quello che capita a tiro fuori dagli zaini, al che propongo di nuovo la mia zucchina e stavolta solo Gioia, forse grata della nostra collaborazione lungo lo spigolo del Manduino, ne accetta un cantuccio. Non fa il bis. A questo punto riorganizziamo gli zaini. Mi libero dalla corda cedendola a malincuore a Sara, non augurando a nessuno di piagarsi la schiena come mi è capitato nelle ultime ore, così da poter allungare il passo con Beno e raggiungere Verceia un'ora prima, recuperare la seconda macchina a Mezzolpiano, e riportarci con entrambe alla fine del sentiero, in attesa degli altri. Così è stato, almeno fino a Moledana e alla diga sottostante, corricchiando nelle discesine e dissetandoci alle sorgenti. Ma una volta abbandonato il Tracciolino e sbucati nella strada sterrata, il passo è diventato una corsa a rotta di collo giù per i sentierini che fanno le mountainbike. Ancora sensibilmente zavorrati e dopo un paio di storte notiamo una gip grigia in discesa. La proposta indecente è quella di arrivare prima di quella al prossimo tornante. La manchiamo di poco e vedo che Beno vuole desistere allora lo sprono ad aumentare il passo. Dopo aver sfidato la natura per un giorno intero ci siamo messi a sfidare la tecnologia (e le nostre articolazioni). Sfrecciando nella polvere ci accorgiamo che da troppo tempo non compare un tornante. Non importa, si continua! Finalmente uno scorcio sul lago appiattito anticipa l'arrivo e dopo pochi minuti siamo sull'asfalto, davanti alle case. Ci passa davanti una gip grigia che Beno sostiene non essere la stessa dell'inizio. 

Siamo in orario per recuperare la vettura a Novate, puciare i piedi nel torrente Codera e riportarci all'imbocco del sentiero. Qui Beno prosegue al volante sperando di intercettare i compagni, ma non ha il permesso per la strada e una telecamera lo rispedisce indietro. Aspettiamo seduti sull'asfalto. Finalmente arrivano: siamo tutti stralunati e c'è solo una cosa da fare. Dopo un rapido bagno al lago giriamo i bar di Nuova Olonio trovandone uno con dei posti liberi all'aperto. Prima di salutarci sorseggiamo le nostre bevande ripercorrendo l'avventura di oltre 24 ore. Ma per qualcuno non è ancora finita, bisogna ritornare integri, chi a Sondrio, chi a Luino, e scolato l'ultimo bicchiere si riparte, forse più sobri, decisamente più cotti della sera prima.

 

 Tramonto sul lago di Mezzola

 Sul sentiero per San Giorgio di Cola

Sonnambuli a Cola 


 Al cospetto del Sasso Manduino

 Fiore di Raponzolo Orbiculare (Phyteuma Orbiculare)

Cavallo e Sara verso l'attacco sotto la costola esposta

 Sulla costola esposta  
  Dalla costola sullo sfondo: Mot Luvré, Cima Lavrina, Pizzo di Prata e Beleniga e sulla estrema sx il Pizzo Forcola
 Il foro alla base dell'attacco 

 Quarto tiro dello spigolo

Sosta al termine del quarto tiro

Sosta al termine del quarto tiro dello spigolo  
Via Schiavio, parte alta.

 Penultima sosta.
Penultima sosta

 

 Si ride sugli ultimi tiri della via Schiavio
 Cavallo e Sara ruzzano sul IV+ del penultimo tiro
 Ultimo ritrovo prima della adunata in vetta
Beno trova il sole e l'aquila sull'ultimo passaggio di V (aggirabile da dx, ma che val la pena forzare per un degna conclusione della salita), a un palmo dalla vetta

Ultimo tiro 

 Comodi in località Sasso Manduino, al completo anche la seconda cordata
A cavallo del cocuzzolo di vetta
 Sara si ricorda di portare anche il Corti, amico di Schiavio, sul cocuzzolo
 Beno organizza la prima calata
Calata dalla normale verso la Val di Rat



lunedì 22 giugno 2020

Rimpfischhorn dalla cresta sud (m 4199)

Del Rimpfischhorn non avevo mai sentito parlare. Parrebbe da considerarsi come itinerario scialpinistico del Canton Vallese più che temuta montagna dall'estenuante avvicinamento. Due rifugi, il Britanniahutte e il ristorante Mittelallalin, sono appollaiati come castelli di fantasia rispettivamente su forcelle a Nord e a Ovest dell'Allalin, ghiacciaio che appena 55 anni fa lasciò cadere un frammento della bellezza di 2 milioni di metri cubi sul grande cantiere sottostante, seppellendo decine di operai al lavoro per costruire la diga a gravità Mattmark. Laddove si separò il seracco è ora una distesa di nevai e anche luogo del nostro accampamento. La nuda e cruda realtà circostante ci farà marciare per chilometri su neve via via più cedevole fino al Rimpfishsattel, un belvedere sul gruppo del Rosa, sul Cervino e sfuggente tra le nubi sulla cara Dent Blanche. La cima di giornata invece torreggia all'estremità meridionale di una cresta molto frastagliata, micro mondo alpinistico che condensa in duecento metri tutti gli elementi per rendere questo fantomatico quattromila facile mozzafiato.



Il Rimpfischhorn da NE.



Partenza: piede della diga Stausee Mattmark (m 2050 ca.).
Itinerario automobilistico: da Intra (VB), raggiungibile col traghetto da Laveno (VA) si prende la SS 33 del Sempione che, buche a parte, è piuttosto veloce. Entrati in Svizzera a Gondo, oltre le omonime inquietanti gole, saliamo al passo del Sempione, per discendere dall'opposto versante verso Brig. Senza raggiungere Brig, in fondo alla discesa puntiamo a O (direzione Sion) e a Visp usciamo dall'autostrada svizzera e seguiamo per Zermatt e Sass Fee. Risaliamo la valle fino a Stalden, quindi prendiamo il ramo più orientale (l'altro va a Zermatt). A Sass Grund andiamo verso Saas Almagell, oltre cui  insistiamo fino al termine della strada asfaltata (23 km dall'inizio della valle), che è poco prima del coronamento della diga dello Stausee Mattmark. Qui il parcheggio è a pagamento, ma più sotto la si può lasciare gratuitamente.
Attenzione: se a Brig si prende l'autostrada occorre acquistare il bollino.
Itinerario sintetico: piede della diga Stausee Mattmark (m 2050 ca.) -  Allalingletscher - Allalinpass - Rimpfischhorn (m 4199).
Tempo di salita: 7 ore.

Attrezzatura richiesta: scarponi, ramponi e piccozza, 30 m di corda, 4 cordini, 3 moschettoni.

Difficoltà:  4 su 6.

Dislivello in salita: 2350 metri.

Dettagli: Alpinistica PD. È una lunga passeggiata prima su cordolo morenico, poi su ghiacciaio e infine su per ripidi canali (40°), roccette (fino al III-) e cresta aerea.

base swisstopo.ch


Eravamo quattro amici a cena, e dopo una sostanziosa carbonara cucinata da Cavallo e Gioia, nonché un tour di vino, birra e liquori, abbiamo effettuato una rapida spunta materiali dandoci appuntamento all'indomani. Ogni volta che prendo il traghetto per Intra so che mi aspetta un lungo viaggio in macchina e una tremenda quanto appagante fatica. Stavolta circolano voci che sarà una scampagnata. Certo non da viaggiare come merce su funivia, però comodi e spensierati.

Fatta la spesa a Domodossola e barattato dei saluti con del formaggio d'alpe dalla mamma e dalla nonna di Ale ci avviamo per il passo Sempione. Una volta in territorio elvetico compaiono cime imbiancate e appuntite da ogni lato. Cavallo, al suo primo quattromila, ha molte domande da rivolgere a Beno, ma una volta giunti a Saas Fee nota i torrenti impetuosi e subito si pente di non aver portato la canna da pesca. In effetti siamo tutti dotati degli urinari ufficiali delle Montagne Divertenti, cioé cappellini alla pescatora biancorossi, che ci fanno sembrare una compagnia di appassionati dell'amo quando non la squadra nazionale di tiro con l'arco. Parcheggiamo ai piedi della diga Mattmark (m 2050 ca.), in un ambiente pietroso ma costellato di radure fiorite, arbusti e qualche pozza stagnante. Alle nostre spalle la Weismeiss, che oggi indossa un cappello di nubi, copre alla vista le dorsali del Fletschhorn e del Lagginhorn. Alzando lo sguardo a sera, cercando la meta odierna, scorgiamo quella che dev'essere la spessa lingua del ghiacciaio, sospesa quasi a tremila metri. Senza indugio ci incamminiamo seguendo una pista sterrata poco ripida che dopo un pugno di tornanti scema in un sentiero. Traversiamo in piano a N e presso una briglia, pieghiamo a sx e saliamo prima in un vallone, poi sul cordolo della morena. Saliamo tranquillamente, carichi di tende e fornelletti da campeggio, sicché abbiamo il tempo per meravigliarci. Da questo sito angusto prende a correre una pernice che poi spicca il volo, col piumaggio stagionale marroncino ingrigito, brava a distrarci dal suo nido che infatti non troviamo.  Appare anche un rapace, forse un avvoltoio, sì! E' proprio un gipeto pettoruto, la testa di un giallo fulgente, a malapena immortalato da Beno. Infine rivolgendoci alla sponda opposta sulla dx ci scopriamo noi stessi avvistati da alcuni stambecchi curiosi che presto si dileguano.

Un ultimo sforzo, due nevai che cedono sensibilmente alle nostre orme inumidendo scarponi e calze, e siamo sulla prominenza scelta per la notte a m 2950 (ore 2:30). Disponiamo subito zaini e fornelletto acceso per sciogliere la neve sulla pietraia a fianco, una piccola tribuna affacciata allo Strahlhorn, dopodiché allestiamo le due tende sulla neve. A me e Cavallo tocca creare un piano facendo da bolla umana, così dopo aver fissato gli ultimi picchetti entriamo nelle rispettive brande e rotoliamo, tirando ginocchiate e pugni, fino a che c'è una parvenza di materasso. Fuori comincia a imbrunire e si accendono le luci della Britanniahutte e della Mittelallalin, bucherellando l'oscurità di questa scenografia teatrale. Non ci lasciamo corrompere nell'animo da tanto sfarzo, e non appena le pepite di neve si sciolgono in pentola stappiamo le tolle di trippa. Per antipasto salame, speck e assortimento di formaggi. Estrema fiducia viene riposta nel nostro chef alpinista Ale. La neve però ha i suoi tempi e non tardano i brividi mentre aspettiamo di squagliarne dell'altra per riempire tutte le thermos di thé ed essere svelti al mattino.
Anche i rifugi hanno già spento le candele. Ultimati i nostri compiti, sotto un cielo stellato sbiadito, e di fronte al bagliore arancio artificiale della pianura piemontese, brindiamo con un liquore al lauro sopravvissuto alla sera precedente, giusto per non lesinare sulle calorie e per riscaldare le membra prima di entrare negli igloo. O almeno le leggende sull'alcol così raccontano.
 Il mio materassino è assottigliato da dieci anni di utilizzo e insieme alla base cerata della tenda frena a stento il gelo, così come sfiorarne le pareti equivale a spalancare la porta del frigo. Di là russano in men che non si dica. "Ma li senti quelli là? Ci hanno fregato" scherza Ale. Sembra facciano a gara, nonostante Cavallo disponga di un sacco a pelo leggerissimo che non gli avrebbe dovuto permettere nemmeno di chiudere occhio. Non possiamo che riderci sopra e rincorrere il sonno, a queste altezze non scontato. D'un tratto la tenda comincia a scuotersi e sentiamo crepitare contro i teli. Dopo qualche minuto Ale chiede cosa sia. Nel dormiveglia abbandono l'idea di un animale che si aggiri nel nostro campo base e rispondo: piove. L'altro, ben più lucido di me, decide di affacciarsi di fuori così mi torco per guardare a mia volta. Una buferina frizzante sta stuzzicando la tenuta delle nostre suites. Niente di allarmante. Avvertiamo i vicini e Beno chiede di controllare che la corda già approntata coi nodi a palla e le asole per gli imbraghi non venga sepolta. Ale ci pensa per un istante drammatico poi esclama "Magari fra un attimo". Scoppiamo a ridere perché è evidente che nessuno ha voglia di uscire sotto l'intemperia. Comunque la corda si vede e le briciole di nevischio ghiacciato sono innocue.
Ci svegliamo, per così dire, alle 4 e mezza e ci mettiamo subito in marcia per scaldarci. La neve ha una scorza dura e vogliamo sfruttarla finché porta. Cerchiamo di tenere la sx per anticipare la virata lungo il vallone dell'Allalingletscher.  Una depressione sotto di noi rivela alcuni crepacci. Sulla dx distinguiamo una serie di lucine di natale che scivolano giù dai rifugi come tante formiche. In parte invidio gli sciatori saliti con gli impianti.

Procediamo tenendoci alla sx di bastionate rocciose che hanno scaricato piccole slavine dai propri colatoi. Non è ancora definito il piano di giornata, se saliremo sull'Allalinhorn o sullo Strahlhorn dopo aver chiuso il Rimpfishhorn. Lo capiamo con lo scorrere delle ore, a batter traccia in cordata, che dovremo accontentarci di un solo quattromila. Sistemo l'urinari e avanziamo, la pazienza da pescatori non ci manca. Finalmente scolliniamo alla quota di 3556 metri del passo Allalin, sul versante orientale del ghiacciaio Mellich, decisi a fare colazione mentre folate di vento artico ci prendono a sberle. E togli i guanti, scatta una foto, spilucca questo e bevi quello, la mani sono subito intorpidite. Ripartiamo col doppio dei vestiti addosso e ci manteniamo all'altezza della sella. Dopo un traverso che nasconde definitivamente la mite sagoma dello Strahlhorn, ci abbassiamo di cinquanta metri pestando uno smottamento. Di lì a poco mi torna prepotente il sangue alle dita: non mi ero neanche accorto di quanto fossero compromesse. Faccio un bel respiro e mi preparo alla fastidiosa ripresa di sensibilità, ma quando raggiungo il picco di dolore le mani continuano a bollire. I compagni restano un pò attoniti ed Ale mi offre le sue moffole mentre mi inginocchio e impreco per non pensare. Mi libero degli inefficienti guanti a cinque dita e provo a darmi sollievo stringendo i pugni o intrecciandoli. Ale, impressionato dal colore bordò, insiste per cedermi le moffole così ci infilo le mani, ma il gran tepore al loro interno rende insopportabile la ricapillarizzazione e le denudo ancora dai polsi alle unghie. Intanto Beno suggerisce di sopprimermi con la picca, così non proverò più dolore. Poco a poco smettono di bruciare e scusandomi per l'attesa possiamo riprendere la marcia. Per precauzione infilo doppi guanti. Gli sbalzi di temperatura, tra ultravioletti rispecchiati e aria gelida ci stanno devastando a nostra insaputa. L'ambiente è tanto incantato quanto ostile, un infinito e candido altopiano desertico: benvenuti nel Mellichgletscher.

Facendo affidamento ai solchi di sci che ci hanno preceduto seguiamo una traiettoria ondulata assecondando i pendii. Aggirando l'ansa successiva contempliamo un angolo di ghiacciaio rimasto svestito dalla neve data la sua verticalità: stalattiti e colonne creano un reticolato di decine di metri. Sembra un pezzo mancante della Sagrada Familia, tessuto vivo. "Un Alien!" Dice qualcuno. Da qui in poi le pendenze si fanno più importanti e intuiamo che il canale di accesso alla vetta, unica difficoltà dichiarata, è prossimo. Incrociamo una coppia di sciatori che scende beata. Prima di affrontare quella che sembra l'ultima rampa attraversiamo un crepaccio in parte sommerso, sfruttando un ponte di neve che si inerpica per quasi due metri guadagnando un ripiano. Per lo stesso scendono altri due sciatori francesi con grande cautela, poi un terzo baldanzoso che compie un salto atletico e disfa parte del tappo di neve. Ci penseremo al ritorno.

Cavallo fa fede al suo nome e tiene duro nonostante lamenta crampi e un ritmo troppo elevato. Gli basta fiatare una ventina di secondi per ripartire di buon passo, e non sospetta che in realtà siamo tutti conciati per le feste e che le pause sono un toccasana anche per noialtri. Contiamo alla rovescia le centinaia di metri, poi le decine che ci separano dal Rimpfishsattel, il plateau alla base del canale conclusivo. Ed eccoci in vista dell'imbocco, marcato dalla presenza di alcune racchette e sci conficcati nella neve. Sembra fatta. Beno ci precede slegato, esausto del tira e molla battendo traccia come un ossesso, perciò mi ritrovo primo di cordata. Occorre concentrarsi per salire all'unisono, sostare e tenere la corda bella tesa nei passaggi più impegnativi. Se da una parte la neve fresca e compatta rende impossibile scivolare, dall'altra rivela roccette irte da arrampicare con le punte dei ramponi mentre mani e picozza ravanano o trovano appigli migliori. Arriviamo a una svolta inaspettata, un sottilissimo traverso (sx) nella neve che richiede di mettere un piede davanti all'altro con estrema cautela, ossia senza ramponarsi le ghette. Diamo la precedenza a un energumeno russo che sta guidando un giovane. Ca va? Bien et vous? Tres bien. Poi tocca a noi. A monte inserisco la picca e nel segmento finale affondo anche la mano libera nella neve, poi usandola per arpionare alcune prese di un gibbone roccioso d'ostacolo al cammino. Raggiunto Beno dall'altra parte mi attacco alla fettuccia disposta attorno a uno spuntone e recupero con un mezzo barcaiolo Ale e Cavallo. Da qui un'altra cengia scavata al cui termine si diparte, dopo una breve dorsale rocciosa, un canale immerso nella neve, esposto se lo si risale dalla groppa spostata a nord, e che proietta sul filo di cresta. A metà Beno colloca una fettuccia ma prima di salire triboliamo con la sosta precedente. Libero, districo, moschettono e siamo pronti. Cerchiamo di essere agili perché la nostra guida ha mal di testa e non vogliamo giocarcela. Saliamo tutti e quattro in conserva. Non appeno vedo strati affilati di pietra nera li saggio per salire con più sicurezza ed evitare di nuotare. In cima un chiodo a t è saldamente cementato alla roccia e il primo di cordata decide di attrezzare una sosta, sembra provato. Una cordatina francese giunge allo stesso punto. Si litiga a chi è più cortese, alla fine la spuntiamo e diamo la precedenza. Via libera. Quindi Beno gira intorno alla svolta abbandonando il nostro versante e lo udiamo quasi sconfortato: «Placche bagnate!». Mi consolo di essermi divertito abbastanza, disposto a tornare, eppure là dietro viene timbrato il passaggio infido e siamo tutti invitati a salire. Parto. Aggirare il masso soprastante richiede un movimento di equilibrio ancorandosi ad esso, così ne afferro i lati come se tentasse di svignarsela e sposto i piedi di là. Sono sulle placchette. Dietro di me con la coda dell'occhio avverto il grande vuoto di quanto scalato finora, mentre al mattino la cresta si arrotonda pochi metri per poi inabissarsi come una scogliera dei fiordi del nord. Non mi resta che apprezzare la roccia piatta e impercettibilmente fessurata. Con gesti delicati la supero sfruttando ogni misera cavità che il sole mette in chiaroscuro. Seguono gli altri compagni, e comunico con decisione a Cavallo, incerto sul da farsi, che per aggirare il masso deve prenderlo per le maniglie dell'amore. Lo lascio poi nelle mani esperte di Ale. Con pazienza e a suon di corda tesa ci ricompattiamo. Ma dopo avermi recuperato Beno è già oltre, impegnato in tratti di facile arrampicata lungo la cresta tortuosa. Ora lamenta anche nausea. Non faccio in tempo a raggiungerlo che scompare dietro alcune roccette. Vede la croce di vetta a cinque metri così faccio passaparola per galvanizzare gli altri. Una volta in piedi sul dosso scopro che per i cinque metri di ravanata finale bisogna in realtà camminare lungo una suggestiva linea di impronte sul ciglio della montagna. Ale indomito chiede se siamo ancora in conserva mentre Cavallo, come rivelerà poi, si sta chiedendo se è previsto anche il ritorno da questa avventura. Lancio un'occhiata a Beno e vedo che fa passare la corda direttamente intorno alla croce di vetta. Mi volto e annuncio la buona novella, "Gesù in persona ci sta assicurando!"

Una volta radunati sotto croce ci scambiamo i complimenti e guardando Cavallo non possiamo esimerci dal riconoscere che per lui è stato un battesimo di fuoco. Scoprirò in seguito che lo è stato anche per me, dovendo riparare le croste e la pelle desquamata della fronte con creme varie. La vetta intanto costringe a disporsi in fila come al cinema. Ma non ci godiamo il panorama. Leggo la targhetta col nome della cima per imparare a pronunciarla, mentre Beno estrae una mela e ne divora una parte offrendola come una preda fresca ai compagni. Nella fretta di tornare al plateau Rimpfishsattel scattiamo al volo la foto con Alfredo Corti, rammaricandoci di non aver scattato nulla in cresta, e cominciamo la discesa senza ulteriori cerimonie. Ale attrezza di volta in volta le soste mentre Beno, devastato da mal di montagna o da virus passeggero che sia, ci cala dall'alto col mezzo barcaiolo. Con lo stesso nodo lo recuperiamo mentre scende: non è la maniera più sicura o civile - di certo la più adrenalinica e celere - ma raggiungere la base del canale e dare tregua alla nostra guida acciaccata è l'imperativo. In men che non si dica siamo ai traversini, in seguito ai quali Beno toglie le briglie, lasciandomi la corda da legare a tracolla, e si fionda giù per i 45 gradi del pendio fino al comodo plateau. Ci ritroviamo dopo alcuni minuti:è accucciato a riprendersi.
All'improvviso un alito di vento si prende il mio urinari dalla testa e lo spedisce ad oriente, così accenno un passo per inseguirlo. Inutile, ormai è scomparso nel baratro pur di farsi il terzo ghiacciaio di giornata, l'Adler. Ultimi a scendere dalla montagna, commentiamo straniti, dato che un paio di sci sta ancora conficcato lassù, in attesa di essere recuperato dal proprietario. Io ne ricordo addirittura uno solo.

Inizia la parte più faticosa della giornata. Chi va davanti? Ale prende le redini, Beno in fondo. Scendiamo concedendoci molte pause. La neve s'è ammollata al punto da rendere preferibile l'ascesa mattutina. In principio l'allontanamento è sopportabile, però, quando non abbiamo né la voglia né la forza di estrarre la macchina foto dallo zaino per riprendere le copiose slavine sul versante ovest del Rimpfishhorn, capiamo di essere allo stremo. Anche sull'energia di un clic si risparmia. Continuiamo per mezz'ore interminabili, beviamo e ogni tanto ci leviamo uno strato. Su indicazioni di Beno, Ale ed io leggiamo attentamente la via del ritorno per evitare i dislivelli inutili dell'andata. Di nuovo ai 3556 metri del passo Allalin soffia una bora familiare. Ale suggerisce di mettere la giacca antivento ma ci illudiamo di poterci riparare appena sotto la sella. Duecento metri più in basso l'aria non dà tregua. Seguiamo il consiglio del nostro chef e belli imbardati riprendiamo una lenta processione.  Si affonda e quando la neve si fa solida, all'ombra della parete dell'Allalinhorn, la parvenza di sollievo e il ricordo di come si cammina svanisce nella pozzanghera successiva. "E' una campagna di Russia!" commenta Beno. Cavallo prenota alcune preziose pause da mezzo minuto e in una di queste vedo Ale appoggiarsi ai manici delle bacchette. Mi rendo conto che è stravolto e abbiamo già superato metà della strada per il nostro bivacco. Gli dò il cambio. Trovare un ritmo costante è arduo e dopo un'altra infinità di tempo scorgiamo le tende, anzi la tenda. Ale con occhi di falco si accorge che una è sparita dal nostro promontorio innevato e la individua nella scarpata di sfasciumi sottostante, dove abbiamo cenato la sera prima. Saranno saltati via i picchetti allo sciogliersi della neve in puciacca, e a questo ritmo distiamo oltre un'ora. Il sole sulla via del tramonto batte le nuche e mostra le nostre ombre claudicanti. Più tardi ci abbassiamo a sx in una depressione crepacciata, nascondendo allo sguardo lo stato dell'accampamento che Eolo sta usando come aquilone. Risaliamo una manciata di metri e ci spostiamo definitivamente sull'asse est ovest, in prossimità del campo base di cui sappiamo essere volata via la metà. Ci sleghiamo, saltellando su due macereti emersi dalla neve insieme agli ometti che segnalano per la Britanniahutte. Sorpresa! Anche l'altra tenda è volata via. Troviamo orme e una catasta di vari oggetti e sacchetti. Qualcuno ha avuto la gentilezza di raccogliere il possibile? Ci dividiamo in due squadre per recuperare le tende. Per fortuna gli involucri interni hanno retto e in venti minuti riusciamo ad impacchettare la roba. Nulla è rotto né perduto. Solo noi stolti rischiamo di esserlo, e come muli divalliamo appesantiti sugli argini morenici. Mille metri ancora. A valle la ferrea memoria di Beno ci conduce nell'alveo del torrente glaciale dove riassaporiamo vera acqua, buonissima, e riposiamo scherzando sull'avventura ormai giunta al suo termine. Ripresa la via Beno ha anche recuperato un pò di salute e dignità, così allunga il passo e scompare più in là, in direzione della macchina. Cavallo è sicuro che voglia allestire un rinfresco e non viene smentito. Al nostro arrivo il baule è aperto, la scala-tavolino brevettata da Beno imbandita, e i nostri occhi brillano alla vista di patatine, salumi e formaggio, dimentichi per un istante della lunga strada da percorrere al volante, e del traghetto di mezzanotte che ci aspetta a Intra. Dovendo assolutamente recuperare i sali e l'alcolismo di questa due giorni stappiamo due birre e in un brindisi l'aperitivo è servito.



I pizzoni di Laveno dal traghetto Laveno-Intra.

Gipeto sopra la diga Mattmark.

Salendo sul cordolo della vecchia morena dell'Allalingletscher.

Il nostra accampamento.

La cena.

Il cielo stellato sopra lo Strahlhorn.

Verso l'Allalinpass.

Nebbia avviluppano lo Strahlhorn.

Una regolatina ai ramponi all'Allalinpass.

Sul ghiacciaio di Mellich.

A m 4000, verso l'edificio sommitale del Rimpfischhorn.

Lungo il canale.

A metà del primo canale.

Quanti 4000!

Dal canale si esce su una stretta cengia.

Alla quale, dopo una selletta, ne segue una seconda, poi si arrampica per qualche metro su roccette e si esce su un nuovo canale.

Ai m 4199 della vetta.