La passione per la montagna mi ha
portato così spesso sulle Alpi che era questione di tempo prima che
ruzzolassi dall'altra parte, e precisamente in Ticino. In realtà sono stati la ricerca di un lavoro dignitoso e tracce di sangue svizzero nelle mie vene a catapultarmi in
una valle che sembra replicare la Valtellina, con l'uva, le
concessionarie, il dialetto, la speculazione edilizia e la cultura
montanara. Purtroppo non avevo previsto che in Svizzera avrei dovuto lavorare sul serio e che nella buca delle lettere avrei ricevuto più fatture che cartoline dall'Italia. Mi sono così rifugiato nelle palestre di arrampicata in attesa di tempi migliori, resistendo alle proposte di Beno di bigiare il lavoro per andare a scalare, fino a che il bisogno di toccare roccia vera ha prevalso su tutto il resto..

Partenza: Brione (Verzasca) (792 m).
Itinerario automobilistico: da Tenero-Contra (Locarno) salire in Val Verzasca fino a Brione. Con permesso oppure in bici è possibile proseguire lungo la mulattiera che percorre la Val d'Osola fin dove finisce la strada.
Itinerario sintetico: Aghei di Là (m 994) - Cortesell (m 1353) - Lancioo (m 2100 ca) - Punta Rasiva (m 2684) - attacco Cresta Sud (m 2377) - Lancioo (m 2100 ca) - Cortesell (m 1353) - Aghei di Là (m 994)
Tempo previsto: ca. 9 ore per l’intero giro (pennichella e spuntini compresi).
Attrezzatura richiesta: corda (20 metri), casco, imbraco, cordini, fettucce, una sosta attrezzata.
Difficoltà: 3 su 6.
Dislivello in salita: circa 1700 m.
Dettagli: PD+.

Dopo una rovinosa scorribanda sul Monte
Rosa, dove i crampi mi hanno fatto decollare gli sci e ho dovuto
usare il gomito come freno, squarciandolo, ho trascorso qualche
settimana a desquamarmi finché ho rimesso nuova pelle. Meta
successiva, dal nome non molto rincuorante, la ticinese Punta
(Ab)Rasiva. Per raggiungerne le pendici ci tuffiamo in Val Verzasca
risalendola fino a Brione. Dopo una ricerca a tappeto dell'accesso
alla Val d'Osola finalmente l'abitato smette di mutare la forma delle
vecchie contrade coi nuovi caseggiati, rivelando una mulattiera.
Immaginando di muoverci sulla cartina spiegazzata tra le mani, notiamo che ci
affianca una serie di ponticelli, ma ne perdiamo il conto. Così,
lanciando uno sguardo alla montagna, ci accorgiamo che da un po' ci
invitava a salire. "Andiamo a prendere la traccia per
Cortesell!". Il pendio è molto scosceso e il fogliame rotto da
alberi e pietre ben radicate. Lo scarpone destro, risentito dalla
lunga assenza del calcagno, mi azzoppa con una vescica fulminante. Mi
ingegno su come appoggiare la pianta del piede per rendere comodo il dolore. Il bosco ci ammaestra finché sbuchiamo
su un sentiero fresco di pulizia. E' dal fondovalle che le
notizie mondane affollano i pensieri, ma sveltendo il passo siamo già
in prossimità dell'alpeggio, ultimo segno antropico, dove è
possibile seminarle. Qua e là baite implose mostrano timidi
tentativi di rappezzarsi, i prati sono ben rasati. L'ultimo focolare
dispone addirittura di una cabina telefonica riadattata a cesso
panoramico, e anche se la carta è finita da un pezzo lo sciacquone è in perenne attività, con lo scroscio di un ruscello. Proseguendo ributtiamo gli occhi sopra di noi. La montagna rinnova il
suo invito ad abbandonare il sentiero, e sulla mappa i greti dei
torrenti prendono le sembianze di scalinate. Scegliamo la vena acquifera che
all'incirca seicento metri di dislivello più tardi bagna la pista
diretta alla Corte di Gemogna. Quando scolliniamo nel suo ripiano,
scorgendola in lontananza, facciamo un picnic frugale tra alcuni
massi rivestiti di alghe secche. A stomaco pieno l'arte fotografica e
sadica di Beno rinsavisce. Mi chiede di appendermi su questo granito
infido, incorniciato tra cielo, Sgemogna e ricoveri sottostanti. Un
nòcciolo di roccia si disfa tra le dita e cado col culo sulla
visega: il servizio fotografico è finito. Dapprima stuzzicati dalla
cresta sud l'intuito di Beno ci guida invece a scoprire il punto
debole della cresta est. Troviamo i primi ometti, e lungo questa
scala a chiocciola schiacciata sulla parete si apre il paesaggio.
Lontane catene innevate si avvolgono di una coltre bluastra, e sui pendii sottostanti si sdraiano macereti dove a strappi emergono mantelli di erba spenta. L'inverno è stato severo qui. Quando
finalmente gli scarponi toccano cresta vediamo che anche sull'altro
versante le nevi stanno diventando pozzanghere. La fiacca non duole
più e dev'essere diventata un tutt'uno con la calza troppo spessa,
perfetto. Un facile saliscendi che a volte richiede l'uso delle mani
e un paio di capriole ci fa rotolare in vetta. "Due gallette e
siesta?" Forse l'ho soltanto immaginato ma la proposta prende
forma mentre cerchiamo giacigli asciutti al riparo dal vento e
apriamo i nostri sacchi traboccanti di leccornie. Acqua, due croste di
formaggio, briciole non meglio identificate ed ecco che Beno già si imbozzola
appena sotto cima, lesto a ronfare. Io preferisco restare ai piedi
della croce, ma non per pregare: cerco disperatamente un sasso
incastonato di incredibili minerali lucenti da portare alla morosa.
Invece, rugando qua e là, proprio sotto la croce estraggo da un cumulo
di pietre una custodia metallica tutta graffiata. Apro il gancio e
ne scivolano fuori due miseri fogli di carta. Recano varie gioie di
escursionisti che sono arrivati fin qua. Scrivo una frase che
dimentico subito e firmo per entrambi. Riponendo il diario nel suo
antro noto un grumo di ghiaccio. Sembra una miniatura di ghiacciaio
ritiratosi nell'ombra, quasi per sfuggire all'ennesima estate
torrida. Gli zaini hanno sputato fuori anche le giacche di piuma d'oca. Presto,
cullati a sufficienza da una brezza singhiozzante, siamo in piedi,
scattiamo alcune foto ricordo e decidiamo al volo di scendere dalla
cresta sud. Sinceramente non ho voglia di ripercorrere la via
dell'andata, dandomi l'impressione di doverla fare camminando
all'indietro. Mentre ci accingiamo a divallare un ronzio che già
avevamo udito si palesa a poche centinaia di metri da noi. Un
velivolo leggero della Federazione Elvetica è impegnato in una serie
voltastomaco di giri della morte. Memore del recente schianto
avvenuto sul Monte Legnone cerco di non rendermi un bersaglio facile
e incalzo Beno a proseguire, mentre non è chiaro se voglia scattare
una foto alla scena o abbattere il mezzo. Scendiamo ancora
infagottati nei nostri pigiama, ignari di cosa
riserba la prossima gobba, quando all'improvviso la terra finisce.
Beno ricorda che dal basso si intravedevano un paio di intagli poco
rassicuranti. Eccone uno. Impalati su un'ultima balconata rocciosa ci
affacciamo sul punto in cui la cresta è sprofondata. Il pilota ci
passa accanto. Lo guardo sfrecciare beffardo, e mi chiedo se non
possa suggerirci la via. Oltre il baratro si erge un gendarme dalla
punta spianata, e su di esso un mucchietto di pietre. "Quello è
un ometto?" "Sì, ma come ci si arriva?" e in tutta
risposta scintilla qualcosa in una nicchia sottostante, conficcato
sul solido ciglio. "Un chiodo!" e di lì un invisibile
disarrampicata scivola su scaglie nude fino a poggiare su di un masso
volante. Questo sembra proprio far da ponte col gendarme. Annodato il
buon vecchio mezzo barcaiolo assicuro il leggermente meno vecchio
Beno mentre vive il suo momento d'aviatore. Ogni suono si assottiglia
fino a scomparire. Ogni movimento è studiato a fondo. Il tempo si è
giusto fermato quando esclama: "Dammi corda, sono atterrato!"
Balza agilmente sul gendarme di fronte e lo setaccia in cerca di
altra ferraglia o fettucce imbevute di maltempo che passati alpinisti
potrebbero aver lasciato. Non c'è niente. Soltanto quell'ometto
solitario che ha trovato la nostra compagnia e non vuole mollarci.
Dall'alto il torcicollo mi costringe a guardare sempre nello stesso
punto, a lato della cresta, dove filtra del vuoto fatto di luce e
soffice erba. Sarebbe bello se fosse l'uscita, con tanto di cartello
e freccia. Intanto Beno ha deciso di buttarsi nella trappola appena
sorvolata. Infatti all'altra estremità dell'apertura spunta una
piramide di detriti che fanno da tappo. Ho sempre partecipato a
calate il più possibile dritte, a piombo, pena una ramanzina dello
stesso Beno. Così questa discesa a spirale frulla in un secondo
tutto quello che so della montagna ma non cambia di una virgola
quello che penso del compagno di gita. E un dubbio sorge spontaneo:
sono anch'io un delinquente? Tengo saldamente la corda, la cedo con
parsimonia alla voce che riecheggia, e aspetto. "Ci sono due
cunicoli qua sotto, provo a vedere se ci si passa!" Rimango
stordito: "Cosa hai detto?" "Dammi corda che mi
infilo!" Con la pazienza di un pescatore che manda a spasso la sua
esca mi concentro sul robusto intreccio di fili e fibre, accompagnandolo in modo che non si laceri, liberandolo che non si riannodi, facendo lavorare
il nodo affinché frizioni bene. Tornato a portata d'orecchio Beno mi
comunica che posso raggiungerlo così facciamo il punto della
situazione. Allestisco la discesa e comincio a camminare
all'indietro, proprio quello che volevo evitare! Dopotutto non è
male fare da esca. Con pinze e rovesci, spalmando le punte degli
scarponi, mi diverto a raggiungere il macigno sospeso, e visto che
nelle situazioni peggiori va sempre di moda, mi faccio
immortalare mentre con le dita faccio una v dai molteplici
significati. Quindi seguo la traiettoria di Beno, giù fino alla base
della fenditura. Non si sa dove mettere i piedi in questo posto
angusto dove sarebbe meglio non mettere piede. Il punto della
situazione è che non siamo speleologi, e che Beno crede di potersi
spremere in uno spiraglio largo quanto un'anguria. Mentre prova ad
allargarlo a suon di pedate lo prego di imboccare l'altra strada
prima che il pavimento crolli. E' una grotta stretta e gelida. Ci
passa prima Beno, che di nuovo scompare chissà dove. Lo assicuro
nell'unica maniera possibile, a mano. E la mano di chi mi depositerà
a mia volta? Lo domando a Beno alle prese con una delicata
disarrampicata. "Metto dentro qualcosa, dopo vedi!" Calmo i
bollori da ammutinamento e ritorno a fare l'alpinista. Finalmente
dopo un tempo incalcolabile sento la corda allentarsi, è arrivato.
Ora tocca agli zaini. Affranco il primo con un otto e lo spingo tra
le pareti finché sbuca, quindi faccio partire la teleferica. Subito viene
bloccata da una cengia e a strattoni devo riavviarla fino a sentire
di nuovo la tensione della corda. "Primo pacco arrivato!"
Stessa operazione per il secondo. Resta ancora un carico, il
sottoscritto. Restandovi legato butto giù la matassa di corda
restante. Mi divincolo grattandomi la schiena nello stretto
passaggio, grato di non essere claustrofobico, fino a sbucare col
muso all'aria aperta. In pratica la montagna mi sta procreando ma il
cordone ombelicale è uscito prima di me. Una manciata di metri da scalare. A gattoni, e spostando un arto alla volta, raggiungo il
rinvio montato da Beno poco sotto e con un salto raggiungo la terra
ferma. Dopo aver letto l'orologio ci guardiamo straniti essendo
trascorsa un'ora da quando abbiamo tirato fuori il cordame: un parto
per davvero! Una blanda merenda ci rimette in marcia giù per il
vallone, intenzionati a calpestare la traccia di salita. Puntiamo ad
alcune macchie di arbusti dove una linea impercettibile fa presagire
un sentiero. Per qualche illusione ottica o semplicemente per pura
coincidenza non si trova lì ma poco distante. La cartina
stropicciata ci informa che è un tratto non battuto in mattinata. E
allora torniamo a urbanizzarci lentamente, facendo tesoro
dell'esperienza che lasciamo alle spalle. Personalmente in tasca mi
tintinna una manciata di minuscole pietre tempestate di micca. Sono
un delinquente anch'io.