lunedì 22 giugno 2020

Rimpfischhorn dalla cresta sud (m 4199)

Del Rimpfischhorn non avevo mai sentito parlare. Parrebbe da considerarsi come itinerario scialpinistico del Canton Vallese più che temuta montagna dall'estenuante avvicinamento. Due rifugi, il Britanniahutte e il ristorante Mittelallalin, sono appollaiati come castelli di fantasia rispettivamente su forcelle a Nord e a Ovest dell'Allalin, ghiacciaio che appena 55 anni fa lasciò cadere un frammento della bellezza di 2 milioni di metri cubi sul grande cantiere sottostante, seppellendo decine di operai al lavoro per costruire la diga a gravità Mattmark. Laddove si separò il seracco è ora una distesa di nevai e anche luogo del nostro accampamento. La nuda e cruda realtà circostante ci farà marciare per chilometri su neve via via più cedevole fino al Rimpfishsattel, un belvedere sul gruppo del Rosa, sul Cervino e sfuggente tra le nubi sulla cara Dent Blanche. La cima di giornata invece torreggia all'estremità meridionale di una cresta molto frastagliata, micro mondo alpinistico che condensa in duecento metri tutti gli elementi per rendere questo fantomatico quattromila facile mozzafiato.



Il Rimpfischhorn da NE.



Partenza: piede della diga Stausee Mattmark (m 2050 ca.).
Itinerario automobilistico: da Intra (VB), raggiungibile col traghetto da Laveno (VA) si prende la SS 33 del Sempione che, buche a parte, è piuttosto veloce. Entrati in Svizzera a Gondo, oltre le omonime inquietanti gole, saliamo al passo del Sempione, per discendere dall'opposto versante verso Brig. Senza raggiungere Brig, in fondo alla discesa puntiamo a O (direzione Sion) e a Visp usciamo dall'autostrada svizzera e seguiamo per Zermatt e Sass Fee. Risaliamo la valle fino a Stalden, quindi prendiamo il ramo più orientale (l'altro va a Zermatt). A Sass Grund andiamo verso Saas Almagell, oltre cui  insistiamo fino al termine della strada asfaltata (23 km dall'inizio della valle), che è poco prima del coronamento della diga dello Stausee Mattmark. Qui il parcheggio è a pagamento, ma più sotto la si può lasciare gratuitamente.
Attenzione: se a Brig si prende l'autostrada occorre acquistare il bollino.
Itinerario sintetico: piede della diga Stausee Mattmark (m 2050 ca.) -  Allalingletscher - Allalinpass - Rimpfischhorn (m 4199).
Tempo di salita: 7 ore.

Attrezzatura richiesta: scarponi, ramponi e piccozza, 30 m di corda, 4 cordini, 3 moschettoni.

Difficoltà:  4 su 6.

Dislivello in salita: 2350 metri.

Dettagli: Alpinistica PD. È una lunga passeggiata prima su cordolo morenico, poi su ghiacciaio e infine su per ripidi canali (40°), roccette (fino al III-) e cresta aerea.

base swisstopo.ch


Eravamo quattro amici a cena, e dopo una sostanziosa carbonara cucinata da Cavallo e Gioia, nonché un tour di vino, birra e liquori, abbiamo effettuato una rapida spunta materiali dandoci appuntamento all'indomani. Ogni volta che prendo il traghetto per Intra so che mi aspetta un lungo viaggio in macchina e una tremenda quanto appagante fatica. Stavolta circolano voci che sarà una scampagnata. Certo non da viaggiare come merce su funivia, però comodi e spensierati.

Fatta la spesa a Domodossola e barattato dei saluti con del formaggio d'alpe dalla mamma e dalla nonna di Ale ci avviamo per il passo Sempione. Una volta in territorio elvetico compaiono cime imbiancate e appuntite da ogni lato. Cavallo, al suo primo quattromila, ha molte domande da rivolgere a Beno, ma una volta giunti a Saas Fee nota i torrenti impetuosi e subito si pente di non aver portato la canna da pesca. In effetti siamo tutti dotati degli urinari ufficiali delle Montagne Divertenti, cioé cappellini alla pescatora biancorossi, che ci fanno sembrare una compagnia di appassionati dell'amo quando non la squadra nazionale di tiro con l'arco. Parcheggiamo ai piedi della diga Mattmark (m 2050 ca.), in un ambiente pietroso ma costellato di radure fiorite, arbusti e qualche pozza stagnante. Alle nostre spalle la Weismeiss, che oggi indossa un cappello di nubi, copre alla vista le dorsali del Fletschhorn e del Lagginhorn. Alzando lo sguardo a sera, cercando la meta odierna, scorgiamo quella che dev'essere la spessa lingua del ghiacciaio, sospesa quasi a tremila metri. Senza indugio ci incamminiamo seguendo una pista sterrata poco ripida che dopo un pugno di tornanti scema in un sentiero. Traversiamo in piano a N e presso una briglia, pieghiamo a sx e saliamo prima in un vallone, poi sul cordolo della morena. Saliamo tranquillamente, carichi di tende e fornelletti da campeggio, sicché abbiamo il tempo per meravigliarci. Da questo sito angusto prende a correre una pernice che poi spicca il volo, col piumaggio stagionale marroncino ingrigito, brava a distrarci dal suo nido che infatti non troviamo.  Appare anche un rapace, forse un avvoltoio, sì! E' proprio un gipeto pettoruto, la testa di un giallo fulgente, a malapena immortalato da Beno. Infine rivolgendoci alla sponda opposta sulla dx ci scopriamo noi stessi avvistati da alcuni stambecchi curiosi che presto si dileguano.

Un ultimo sforzo, due nevai che cedono sensibilmente alle nostre orme inumidendo scarponi e calze, e siamo sulla prominenza scelta per la notte a m 2950 (ore 2:30). Disponiamo subito zaini e fornelletto acceso per sciogliere la neve sulla pietraia a fianco, una piccola tribuna affacciata allo Strahlhorn, dopodiché allestiamo le due tende sulla neve. A me e Cavallo tocca creare un piano facendo da bolla umana, così dopo aver fissato gli ultimi picchetti entriamo nelle rispettive brande e rotoliamo, tirando ginocchiate e pugni, fino a che c'è una parvenza di materasso. Fuori comincia a imbrunire e si accendono le luci della Britanniahutte e della Mittelallalin, bucherellando l'oscurità di questa scenografia teatrale. Non ci lasciamo corrompere nell'animo da tanto sfarzo, e non appena le pepite di neve si sciolgono in pentola stappiamo le tolle di trippa. Per antipasto salame, speck e assortimento di formaggi. Estrema fiducia viene riposta nel nostro chef alpinista Ale. La neve però ha i suoi tempi e non tardano i brividi mentre aspettiamo di squagliarne dell'altra per riempire tutte le thermos di thé ed essere svelti al mattino.
Anche i rifugi hanno già spento le candele. Ultimati i nostri compiti, sotto un cielo stellato sbiadito, e di fronte al bagliore arancio artificiale della pianura piemontese, brindiamo con un liquore al lauro sopravvissuto alla sera precedente, giusto per non lesinare sulle calorie e per riscaldare le membra prima di entrare negli igloo. O almeno le leggende sull'alcol così raccontano.
 Il mio materassino è assottigliato da dieci anni di utilizzo e insieme alla base cerata della tenda frena a stento il gelo, così come sfiorarne le pareti equivale a spalancare la porta del frigo. Di là russano in men che non si dica. "Ma li senti quelli là? Ci hanno fregato" scherza Ale. Sembra facciano a gara, nonostante Cavallo disponga di un sacco a pelo leggerissimo che non gli avrebbe dovuto permettere nemmeno di chiudere occhio. Non possiamo che riderci sopra e rincorrere il sonno, a queste altezze non scontato. D'un tratto la tenda comincia a scuotersi e sentiamo crepitare contro i teli. Dopo qualche minuto Ale chiede cosa sia. Nel dormiveglia abbandono l'idea di un animale che si aggiri nel nostro campo base e rispondo: piove. L'altro, ben più lucido di me, decide di affacciarsi di fuori così mi torco per guardare a mia volta. Una buferina frizzante sta stuzzicando la tenuta delle nostre suites. Niente di allarmante. Avvertiamo i vicini e Beno chiede di controllare che la corda già approntata coi nodi a palla e le asole per gli imbraghi non venga sepolta. Ale ci pensa per un istante drammatico poi esclama "Magari fra un attimo". Scoppiamo a ridere perché è evidente che nessuno ha voglia di uscire sotto l'intemperia. Comunque la corda si vede e le briciole di nevischio ghiacciato sono innocue.
Ci svegliamo, per così dire, alle 4 e mezza e ci mettiamo subito in marcia per scaldarci. La neve ha una scorza dura e vogliamo sfruttarla finché porta. Cerchiamo di tenere la sx per anticipare la virata lungo il vallone dell'Allalingletscher.  Una depressione sotto di noi rivela alcuni crepacci. Sulla dx distinguiamo una serie di lucine di natale che scivolano giù dai rifugi come tante formiche. In parte invidio gli sciatori saliti con gli impianti.

Procediamo tenendoci alla sx di bastionate rocciose che hanno scaricato piccole slavine dai propri colatoi. Non è ancora definito il piano di giornata, se saliremo sull'Allalinhorn o sullo Strahlhorn dopo aver chiuso il Rimpfishhorn. Lo capiamo con lo scorrere delle ore, a batter traccia in cordata, che dovremo accontentarci di un solo quattromila. Sistemo l'urinari e avanziamo, la pazienza da pescatori non ci manca. Finalmente scolliniamo alla quota di 3556 metri del passo Allalin, sul versante orientale del ghiacciaio Mellich, decisi a fare colazione mentre folate di vento artico ci prendono a sberle. E togli i guanti, scatta una foto, spilucca questo e bevi quello, la mani sono subito intorpidite. Ripartiamo col doppio dei vestiti addosso e ci manteniamo all'altezza della sella. Dopo un traverso che nasconde definitivamente la mite sagoma dello Strahlhorn, ci abbassiamo di cinquanta metri pestando uno smottamento. Di lì a poco mi torna prepotente il sangue alle dita: non mi ero neanche accorto di quanto fossero compromesse. Faccio un bel respiro e mi preparo alla fastidiosa ripresa di sensibilità, ma quando raggiungo il picco di dolore le mani continuano a bollire. I compagni restano un pò attoniti ed Ale mi offre le sue moffole mentre mi inginocchio e impreco per non pensare. Mi libero degli inefficienti guanti a cinque dita e provo a darmi sollievo stringendo i pugni o intrecciandoli. Ale, impressionato dal colore bordò, insiste per cedermi le moffole così ci infilo le mani, ma il gran tepore al loro interno rende insopportabile la ricapillarizzazione e le denudo ancora dai polsi alle unghie. Intanto Beno suggerisce di sopprimermi con la picca, così non proverò più dolore. Poco a poco smettono di bruciare e scusandomi per l'attesa possiamo riprendere la marcia. Per precauzione infilo doppi guanti. Gli sbalzi di temperatura, tra ultravioletti rispecchiati e aria gelida ci stanno devastando a nostra insaputa. L'ambiente è tanto incantato quanto ostile, un infinito e candido altopiano desertico: benvenuti nel Mellichgletscher.

Facendo affidamento ai solchi di sci che ci hanno preceduto seguiamo una traiettoria ondulata assecondando i pendii. Aggirando l'ansa successiva contempliamo un angolo di ghiacciaio rimasto svestito dalla neve data la sua verticalità: stalattiti e colonne creano un reticolato di decine di metri. Sembra un pezzo mancante della Sagrada Familia, tessuto vivo. "Un Alien!" Dice qualcuno. Da qui in poi le pendenze si fanno più importanti e intuiamo che il canale di accesso alla vetta, unica difficoltà dichiarata, è prossimo. Incrociamo una coppia di sciatori che scende beata. Prima di affrontare quella che sembra l'ultima rampa attraversiamo un crepaccio in parte sommerso, sfruttando un ponte di neve che si inerpica per quasi due metri guadagnando un ripiano. Per lo stesso scendono altri due sciatori francesi con grande cautela, poi un terzo baldanzoso che compie un salto atletico e disfa parte del tappo di neve. Ci penseremo al ritorno.

Cavallo fa fede al suo nome e tiene duro nonostante lamenta crampi e un ritmo troppo elevato. Gli basta fiatare una ventina di secondi per ripartire di buon passo, e non sospetta che in realtà siamo tutti conciati per le feste e che le pause sono un toccasana anche per noialtri. Contiamo alla rovescia le centinaia di metri, poi le decine che ci separano dal Rimpfishsattel, il plateau alla base del canale conclusivo. Ed eccoci in vista dell'imbocco, marcato dalla presenza di alcune racchette e sci conficcati nella neve. Sembra fatta. Beno ci precede slegato, esausto del tira e molla battendo traccia come un ossesso, perciò mi ritrovo primo di cordata. Occorre concentrarsi per salire all'unisono, sostare e tenere la corda bella tesa nei passaggi più impegnativi. Se da una parte la neve fresca e compatta rende impossibile scivolare, dall'altra rivela roccette irte da arrampicare con le punte dei ramponi mentre mani e picozza ravanano o trovano appigli migliori. Arriviamo a una svolta inaspettata, un sottilissimo traverso (sx) nella neve che richiede di mettere un piede davanti all'altro con estrema cautela, ossia senza ramponarsi le ghette. Diamo la precedenza a un energumeno russo che sta guidando un giovane. Ca va? Bien et vous? Tres bien. Poi tocca a noi. A monte inserisco la picca e nel segmento finale affondo anche la mano libera nella neve, poi usandola per arpionare alcune prese di un gibbone roccioso d'ostacolo al cammino. Raggiunto Beno dall'altra parte mi attacco alla fettuccia disposta attorno a uno spuntone e recupero con un mezzo barcaiolo Ale e Cavallo. Da qui un'altra cengia scavata al cui termine si diparte, dopo una breve dorsale rocciosa, un canale immerso nella neve, esposto se lo si risale dalla groppa spostata a nord, e che proietta sul filo di cresta. A metà Beno colloca una fettuccia ma prima di salire triboliamo con la sosta precedente. Libero, districo, moschettono e siamo pronti. Cerchiamo di essere agili perché la nostra guida ha mal di testa e non vogliamo giocarcela. Saliamo tutti e quattro in conserva. Non appeno vedo strati affilati di pietra nera li saggio per salire con più sicurezza ed evitare di nuotare. In cima un chiodo a t è saldamente cementato alla roccia e il primo di cordata decide di attrezzare una sosta, sembra provato. Una cordatina francese giunge allo stesso punto. Si litiga a chi è più cortese, alla fine la spuntiamo e diamo la precedenza. Via libera. Quindi Beno gira intorno alla svolta abbandonando il nostro versante e lo udiamo quasi sconfortato: «Placche bagnate!». Mi consolo di essermi divertito abbastanza, disposto a tornare, eppure là dietro viene timbrato il passaggio infido e siamo tutti invitati a salire. Parto. Aggirare il masso soprastante richiede un movimento di equilibrio ancorandosi ad esso, così ne afferro i lati come se tentasse di svignarsela e sposto i piedi di là. Sono sulle placchette. Dietro di me con la coda dell'occhio avverto il grande vuoto di quanto scalato finora, mentre al mattino la cresta si arrotonda pochi metri per poi inabissarsi come una scogliera dei fiordi del nord. Non mi resta che apprezzare la roccia piatta e impercettibilmente fessurata. Con gesti delicati la supero sfruttando ogni misera cavità che il sole mette in chiaroscuro. Seguono gli altri compagni, e comunico con decisione a Cavallo, incerto sul da farsi, che per aggirare il masso deve prenderlo per le maniglie dell'amore. Lo lascio poi nelle mani esperte di Ale. Con pazienza e a suon di corda tesa ci ricompattiamo. Ma dopo avermi recuperato Beno è già oltre, impegnato in tratti di facile arrampicata lungo la cresta tortuosa. Ora lamenta anche nausea. Non faccio in tempo a raggiungerlo che scompare dietro alcune roccette. Vede la croce di vetta a cinque metri così faccio passaparola per galvanizzare gli altri. Una volta in piedi sul dosso scopro che per i cinque metri di ravanata finale bisogna in realtà camminare lungo una suggestiva linea di impronte sul ciglio della montagna. Ale indomito chiede se siamo ancora in conserva mentre Cavallo, come rivelerà poi, si sta chiedendo se è previsto anche il ritorno da questa avventura. Lancio un'occhiata a Beno e vedo che fa passare la corda direttamente intorno alla croce di vetta. Mi volto e annuncio la buona novella, "Gesù in persona ci sta assicurando!"

Una volta radunati sotto croce ci scambiamo i complimenti e guardando Cavallo non possiamo esimerci dal riconoscere che per lui è stato un battesimo di fuoco. Scoprirò in seguito che lo è stato anche per me, dovendo riparare le croste e la pelle desquamata della fronte con creme varie. La vetta intanto costringe a disporsi in fila come al cinema. Ma non ci godiamo il panorama. Leggo la targhetta col nome della cima per imparare a pronunciarla, mentre Beno estrae una mela e ne divora una parte offrendola come una preda fresca ai compagni. Nella fretta di tornare al plateau Rimpfishsattel scattiamo al volo la foto con Alfredo Corti, rammaricandoci di non aver scattato nulla in cresta, e cominciamo la discesa senza ulteriori cerimonie. Ale attrezza di volta in volta le soste mentre Beno, devastato da mal di montagna o da virus passeggero che sia, ci cala dall'alto col mezzo barcaiolo. Con lo stesso nodo lo recuperiamo mentre scende: non è la maniera più sicura o civile - di certo la più adrenalinica e celere - ma raggiungere la base del canale e dare tregua alla nostra guida acciaccata è l'imperativo. In men che non si dica siamo ai traversini, in seguito ai quali Beno toglie le briglie, lasciandomi la corda da legare a tracolla, e si fionda giù per i 45 gradi del pendio fino al comodo plateau. Ci ritroviamo dopo alcuni minuti:è accucciato a riprendersi.
All'improvviso un alito di vento si prende il mio urinari dalla testa e lo spedisce ad oriente, così accenno un passo per inseguirlo. Inutile, ormai è scomparso nel baratro pur di farsi il terzo ghiacciaio di giornata, l'Adler. Ultimi a scendere dalla montagna, commentiamo straniti, dato che un paio di sci sta ancora conficcato lassù, in attesa di essere recuperato dal proprietario. Io ne ricordo addirittura uno solo.

Inizia la parte più faticosa della giornata. Chi va davanti? Ale prende le redini, Beno in fondo. Scendiamo concedendoci molte pause. La neve s'è ammollata al punto da rendere preferibile l'ascesa mattutina. In principio l'allontanamento è sopportabile, però, quando non abbiamo né la voglia né la forza di estrarre la macchina foto dallo zaino per riprendere le copiose slavine sul versante ovest del Rimpfishhorn, capiamo di essere allo stremo. Anche sull'energia di un clic si risparmia. Continuiamo per mezz'ore interminabili, beviamo e ogni tanto ci leviamo uno strato. Su indicazioni di Beno, Ale ed io leggiamo attentamente la via del ritorno per evitare i dislivelli inutili dell'andata. Di nuovo ai 3556 metri del passo Allalin soffia una bora familiare. Ale suggerisce di mettere la giacca antivento ma ci illudiamo di poterci riparare appena sotto la sella. Duecento metri più in basso l'aria non dà tregua. Seguiamo il consiglio del nostro chef e belli imbardati riprendiamo una lenta processione.  Si affonda e quando la neve si fa solida, all'ombra della parete dell'Allalinhorn, la parvenza di sollievo e il ricordo di come si cammina svanisce nella pozzanghera successiva. "E' una campagna di Russia!" commenta Beno. Cavallo prenota alcune preziose pause da mezzo minuto e in una di queste vedo Ale appoggiarsi ai manici delle bacchette. Mi rendo conto che è stravolto e abbiamo già superato metà della strada per il nostro bivacco. Gli dò il cambio. Trovare un ritmo costante è arduo e dopo un'altra infinità di tempo scorgiamo le tende, anzi la tenda. Ale con occhi di falco si accorge che una è sparita dal nostro promontorio innevato e la individua nella scarpata di sfasciumi sottostante, dove abbiamo cenato la sera prima. Saranno saltati via i picchetti allo sciogliersi della neve in puciacca, e a questo ritmo distiamo oltre un'ora. Il sole sulla via del tramonto batte le nuche e mostra le nostre ombre claudicanti. Più tardi ci abbassiamo a sx in una depressione crepacciata, nascondendo allo sguardo lo stato dell'accampamento che Eolo sta usando come aquilone. Risaliamo una manciata di metri e ci spostiamo definitivamente sull'asse est ovest, in prossimità del campo base di cui sappiamo essere volata via la metà. Ci sleghiamo, saltellando su due macereti emersi dalla neve insieme agli ometti che segnalano per la Britanniahutte. Sorpresa! Anche l'altra tenda è volata via. Troviamo orme e una catasta di vari oggetti e sacchetti. Qualcuno ha avuto la gentilezza di raccogliere il possibile? Ci dividiamo in due squadre per recuperare le tende. Per fortuna gli involucri interni hanno retto e in venti minuti riusciamo ad impacchettare la roba. Nulla è rotto né perduto. Solo noi stolti rischiamo di esserlo, e come muli divalliamo appesantiti sugli argini morenici. Mille metri ancora. A valle la ferrea memoria di Beno ci conduce nell'alveo del torrente glaciale dove riassaporiamo vera acqua, buonissima, e riposiamo scherzando sull'avventura ormai giunta al suo termine. Ripresa la via Beno ha anche recuperato un pò di salute e dignità, così allunga il passo e scompare più in là, in direzione della macchina. Cavallo è sicuro che voglia allestire un rinfresco e non viene smentito. Al nostro arrivo il baule è aperto, la scala-tavolino brevettata da Beno imbandita, e i nostri occhi brillano alla vista di patatine, salumi e formaggio, dimentichi per un istante della lunga strada da percorrere al volante, e del traghetto di mezzanotte che ci aspetta a Intra. Dovendo assolutamente recuperare i sali e l'alcolismo di questa due giorni stappiamo due birre e in un brindisi l'aperitivo è servito.



I pizzoni di Laveno dal traghetto Laveno-Intra.

Gipeto sopra la diga Mattmark.

Salendo sul cordolo della vecchia morena dell'Allalingletscher.

Il nostra accampamento.

La cena.

Il cielo stellato sopra lo Strahlhorn.

Verso l'Allalinpass.

Nebbia avviluppano lo Strahlhorn.

Una regolatina ai ramponi all'Allalinpass.

Sul ghiacciaio di Mellich.

A m 4000, verso l'edificio sommitale del Rimpfischhorn.

Lungo il canale.

A metà del primo canale.

Quanti 4000!

Dal canale si esce su una stretta cengia.

Alla quale, dopo una selletta, ne segue una seconda, poi si arrampica per qualche metro su roccette e si esce su un nuovo canale.

Ai m 4199 della vetta.

domenica 31 maggio 2020

Pizzo di Prata dal canale Buzzetti


Il Pizzo di Prata sembra un tabù da sfatare, la montagna che viene giù, dove è facile smarrirsi o quella dei tanti che non sono tornati. Così gli oroscopi locali sono diventati moniti e questi a loro volta sono stati tramandati nelle relazioni come uno scherzo. Tanto che alcuni hanno smesso di parlarne o addirittura certi valchiavennaschi di primo pelo non sanno indicarlo dal loro paese e menchemeno sulla carta. Eppure è il cuore della valle, che lo affianca sulla sinistra orografica. Da sud appare tozzo e imponente, da Voga o dalla Val Ladrogno slanciato, mentre da nord s'inarca come per inghiottire la Val Schiesone sottostante, noi compresi: da qui abbiamo iniziato a seguire le orme di Don Buzzetti, noto primo salitore e prematuramente scomparso parroco di Uschione.


La val Schiesone e il nostro itinerario visti da S. Antonio di Mese.



Partenza: Prata Camportaccio, chiesa di Sant’Eusebio (m 352).

Itinerario automobilistico: dalla rotonda di Dubino si prende la SS 36 in direzione di Chiavenna (N). Dopo una galleria si sbuca a Verceia (3 km), paese ubicato allo sbocco della valle dei Ratti. La successiva galleria “Monti di Campo” conduce a Campo (4,8 km) e Novate Mezzola (5,8 km) sopra cui è l’accesso sospeso della val Codera. Sulla sx nei pressi della stazione vi è lo scheletro della dismessa acciaieria Falck, mentre, procedendo, sulla dx sfila l’alta parete della Motta di Avedée. Costeggiato il bacino del Pozzo di Riva, si entra nel comune di Samolaco (8,2 km). Sulla dx scorrono intanto le selvagge valli del versante meridionale del pizzo di Prata. Colpisce per estensione del prato e dei campi attigui la Cascina Bodengo, un verde sipario all’alta cascata della Pisarotta. Ecco la frazione Somaggia, che una fascia coltivata divide dalle prime case del comune di Prata Camportaccio. Sul lato opposto della Valchiavenna la torrre di Segname e il piramidale Pizzaccio vigilano il passaggio. Dopo 14 chilometri dalla rotonda si è nella frazione San Cassiano. Si prosegue per Chiavenna finché, già in vista del pizzo Stella e del pizzo Galleggione, superato il ponte sullo Schiesone, il cartello “Prata Camportaccio” anticipa l’uscita sulla dx (18,2 km). Si segue via Alfonso Guidi. Dopo 400 metri, già in vista della chiesa parrocchiale, al crocevia si sale dritti (via Balzòo) fino al parcheggio del campo sportivo attiguo alla parrocchiale di Sant’Eusebio (19 km). In zona è possibile giungere comodamente anche in treno grazie alla linea Colico - Chiavenna.

Itinerario sintetico: chiesa di Sant’Eusebio (m 352) - Dona (m 433) - Lottano (m 654) - Pradotti (m 1050) - Belvedere (m 1212) - Curlegia (m 1258) - rifugio del Biondo (m 1322) - - bocchetta alta di Schiesone - punta Buzzetti - bocchetta alta di Schiesone - pizzo di Prata (2727) - croce di Matra - Pratella (m 1049) - Stovano (m 700) - chiesa di Sant’Eusebio (m 352). Tempo di percorrenza: 5:30 ore. Attrezzatura richiesta: scarponi.

Difficoltà/dislivello: 4.5 su 6, circa 3000 m.

Dettagli: alpinistica PD. Passi su roccia, anche friabile, fino al III grado e pendii nevosi fino a 45°. Itinerario molto lungo e spesso difficile da trovare, specialmente in discesa.

Mappe:  Valchiavenna. Valle Spluga - Val Bregaglia, 1:25000, edita da Sete e distribuita da Beno Editore.





Dopo aver campeggiato nei pressi di Dona (meno di 10 minuti di cammino sopra la chiesa di Sant'Eusebio), svuotata la thermos di caffèlatte, alle 6.00 imbocchiamo la mulattiera per il Biondo, rifugio adibito alle feste che si trova nell'ultima manciata di baite della valle. Beno riferisce di resoconti fantasiosi che parlano di forte esposizione nell'ultimo tratto, ma non vi sarà traccia di precipizi, se non quelli che i fumi dell'alcol potrebbero creare. Tutt'al più conviene camminare in fila indiana e aver un unico timore: le zecche. La via si snoda attraverso una serie di boschi, prati e antiche frazioni, che per quanto affascinanti e talvolta molto curate, con tanto di vialetti lastricati e aiuole in fiore, svoltato l'angolo trovano i sentieri disseminati di insidie invisibili, se non fosse per le braghe bianche indossate appositamente da Beno. Ad ogni controllo delle caviglie i parassiti vengono individuati. Vuoi l'incuria degli ultimi mesi di pandemia o il clima sempre più caldo l'erba pullula di zecche e ci troviamo costretti ad abbandonarla continuando sui tornanti della carrozzabile che serve le località Nirola, Pradotti e Belvedere. Ai lati della strada è pieno di fragole selvatiche grosse come lamponi, non passa proprio nessuno per di qua. Una volta ripreso il sentiero e superata qualche cascina isolata prendiamo fiato sul lungo e pianeggiante traverso che ci deposita al rifugio il Biondo, quota 1322 metri. Qui Beno si mette a sperimentare le sue abilità da pilota col drone, per scattare delle foto. Stando fermi l'umidità che fino a quel momento ci ha fatto procedere senza maglietta costringe a ripartire infreddoliti e coperti. Ancora un'ansa e ci attende un ripido pendio, dietro il quale provengono belati di capra. La testata dello Schiesone ci sovrasta e Beno aspetta l'occasione di virare a destra per avvicinare la base del canale Buzzetti, linea di congiunzione fra l'omonima punta, una vertiginosa sequenza di strapiombi e pinnacoli, e la parete nord del Prata, un labirinto di cenge e placche. Quando l'ambiente si fa più brullo, e salutiamo un larice solitario, senza più indugio tagliamo in quella direzione, evitando che una costola della montagna costringa a ridiscendere. Nelle vicinanze sorge un ricovero per pastori con stalla annessa, un lusso! esclama Beno. Le capre ci precedono ma al primo contatto affrettano il passo, attraversando la pietraia alla base del nevaio per poi approdare a un poggio panoramico. Il tutto ripreso dal drone per poi scoprire che la registrazione non è partita. E' il momento di portarci sul fondo del canale e armarci di ramponi e picozza. La neve ha una crosta gradevole, e gambe permettendo siamo lanciati verso l'alto, zigzagando poco e pregustando il panorama sulla Valcodera. D'un tratto un sibilo crescente prorompe dalla nord del Prata, e per un istante mi aspetto di vedere uno squarcio nella parete. Mi volto di scatto ma niente, c'è solo Beno che dice di mantenere quel fianco e che del materiale è caduto nella neve in una valletta accanto. Nonostante siamo disallenati aumentiamo l'andatura. Esplode un secondo fischio, simile a un tuono attutito dalle cavità della montagna. Inquietato cerco stupidamente il pericolo con lo sguardo anzichè allontanarmi per precauzione, ma di nuovo non vedo nulla. Presto, ad un decisivo incremento di pendenza, ci lasciamo alle spalle la tetra base della nord, mentre la scighera sta riempiendo il canale sopra e sotto di noi. Come se non bastasse ad incupire gli animi Beno commenta che sembra di entrare nella porta dell'inferno. I 40 gradi dello scivolo che stiamo risalendo si fanno sentire: tra scarsa visibilità e polpacci infuocati decidiamo di non immortalare nessuno sprint finale col drone. Sbuchiamo dall'altra parte quando oramai le nebbie avvolgono le cime e invadono le valli circostanti. Un traversino su un ponte di neve solida sul fianco orientale ci regala un facile pendio e finalmente siamo sulla Punta Buzzetti. Noto l'assenza di un ometto e mentre ne costruisco una miniatura ci accorgiamo che la catasta di granito e gneiss sommitale vibra a ogni passo e dentro è cava. Muovendoci con cautela giochiamo nuovamente col drone e scopriamo la bellezza delle voragini che ci circondano. È soltanto un antipasto al Pizzun, quindi dopo un boccone e un sorso d'acqua ritorniamo alla bocchetta, diretti alle placche che si susseguono verso l'anticima del Prata, incorniciate da radi e appassiti ciuffi. Troviamo però un ostacolo, una muraglia di quindici metri semi marcia, alla cui metà scende una corda sfibrata in più punti. Beno la risale in arrampicata finché gli appigli sono solidi poi non fidandosi della parte successiva si defila sulla sinistra per aggirare l'ultimo dosso, muovendosi come un bradipo e sfruttando una sottile cengia erbosa. A ruota giungo al punto di svolta ma lì vengo bloccato dalla voce di Beno, che valuta se buttarmi una corda dall'alto, visto che non me la sento di passare dalla quarantena a fare l'equilibrista su quella strisciolina d'erba. Da commedianti provetti ci rendiamo conto che la corda è nel mio zaino. Accantonando l'idea di disarrampicare, e perdere tempo prezioso per aggirare la parete, testo la corda. Infatti i due metri di fune restanti, fino allo spuntone di assicurazione sono ancora integri. Procedo in salita scegliendo con cura gli appoggi per i piedi, gli appigli per la mano destra e tirando lievemente la corda con la sinistra. Giungo in cima trafelato e sorrido ai 200 metri di dislivello finali. Un pò frastornato dai dieci minuti appena trascorsi mi ricompongo, in attesa del passo da III esposto, segnalato a Beno da un amico che ha suggerito l'intero itinerario. Scollinando per primo, mentre il compagno di gita è rimasto indietro dopo essersi recato ai servizi, mi fermo, ammaliato dalla vista. Qui giunge la seghettata cresta orientale dalla Valcodera di cui dobbiamo percorrere circa centocinquanta metri. Nel viavai di banchi di nebbia sotto un cielo perennemente bianco, distinguo la croce di vetta, è vicinissima. Cedo il passo all'apripista che nota dei fittoni cementati, e seguiamo tranquillamente il filo finché ci si para davanti la tanto attesa breccia, o meglio, un piccolo gendarme che ricorda tanto il cavallo di bronzo del Disgrazia, con l'unica differenza che non invoglia a passarlo di lato: bisogna cavalcarlo. Beno si porta agilmente su un primo ripiano da un metro quadro quindi dopo una studiata veloce punta gli scarponi, cambia tacca, e si issa, è già di là. Dopo una sola occhiata al vuoto che c'è al mattino della montagna, decido di ignorare cosa c'è dall'altra parte, lo so bene. Raggiunto il comodo davanzale trovo subito gli appigli per le dita e mentre piazzo il primo piede colpisco la roccia col ginocchio ma prima di avvertire dolore ho già archiviato la sola difficoltà tecnica della giornata. È fatta, in un minuto ci spianiamo nei pressi della croce di legno dedicata all'alpinista don Buzzetti, mangiando, sonnecchiando sotto uno spiraglio di sole. Ovviamente sguinzangliamo di nuovo la bestia elettronica volante. Poltriamo decisamente troppo. Infatti appena comincia la discesa dalla normale un nemico finora sottovalutato ci rende ciechi. La foschia, continuamente alimentata dal fondovalle e ammassata da forti correnti d'aria, nasconde la via sul versante sud, e ci troviamo costretti a scendere a spanne, in cerca della Porta. Prima va avanti uno poi se compare un ometto richiama l'altro, finché Beno, dopo aver scambiato certi spuntoni di roccia per viandanti, si avventura in un vallone celato alla vista. La comunicazione si riduce a delle eco che si sovrappongono, e anche se siamo in due, come da effetto previsto sembra che ognuno urli a sé stesso. Spostandomi più in basso vedo tracce di passaggio animale, credo persino di sentire dei campanacci, così lo annuncio con convinzione: la Porta è vicina! Assecondando quanto udito, Beno scorge sul limitare della nebbia quelli che potrebbero essere i segni dell'Alpe Sparavera. Annuisco senza distinguere un singolo muretto. Di lì a poco, ancora dubbiosi e disorientati, troviamo lo sbocco del nostro canyon, e seguendo rigoli d'acqua e cumuli di rottami compaiono dei rassicuranti bolli rossi, poi una catena e resti di nevaio che evitiamo per non cadere nei buchi ai suoi lati. Ci abbassiamo fino a intravedere una selletta d'erba  di fronte, guadagnata l'anno scorso in un fallimentare tentativo di raggiungere la cima, dopo aver perso ripetutamente la via. Giunti in fondo superiamo un vallone torrenziale perpendicolare al nostro, forse quello esplorato da Beno qualche centinaio di metri più sopra. Manteniamo la quota tagliando per ginepri e rododendri fino al punto di mia conoscenza, quindi scendiamo decisi giù per una macchia di maloss, utili per aggrapparsi se si incontrano dall'alto, e dopo l'ennesimo greto di sfasciumi comincia un saliscendi nella boscaglia più selvaggia e dimenticata della montagna. I bolli rossi compaiono soltanto dopo aver rinvenuto il sentiero tra gli arbusti e la fitta vegetazione. Per fortuna ricordo ogni cul de sac della volta precedente. Ci nutriamo di biscotti all'ombra di un possente abete quando mancano ancora 1800 metri di dislivello negativo. Una volta sbucati sulla dorsale ovest, prossimi alla croce di Matra, arrivare alla prima fonte d'acqua per sciacquarsi la faccia e la faringe diventa questione di primaria importanza. Prendiamo a corricchiare attutendo la forza di gravità e oltre dieci kili di zaino e mettendo in fuga delle pecore. Abbiamo il nostro corteo fino a Matra dove arrivo stremato, tanto da mimare la mia crocifissione. Beno traffica ancora con la macchina fotografica, secondo me vuole solo riposarsi, così lo rincalzo dicendogli che in mezz'ora saremo a Pradella e in un'ora a Prata. Inizia una folle corsa nella pineta. Ora le spennellate bianche e rosse abbondano. Arrivati alle case e ai magnifici prati a quota 1000 metri facciamo la scorta di acqua come cammelli e camminiamo dando tregua alle ginocchia, poi di nuovo a rotta di collo giù per gradinate intersecando la strada asfaltata. Stavolta annebbiati nella mente, sbagliamo sentiero finendo in un accesso ad una cascina privata. Non demordiamo e ripresa la discesa nella selva confido a Beno che in tutto quel sottobosco rivoltato ci tireremo addosso la piaga già scongiurata al mattino: zecche in quantità. Di ritorno al tornante troviamo dei pannelli a conferma che il bosco ne è pieno, infatti ne eliminiamo una per gamba. Non c'è altro da fare, per tornare alla civiltà incolumi seguiamo la strada, e una volta recuperata la macchina ci accorgiamo di essere a pezzi, le gambe tremano, la schiena segnata e spellata qua e là dallo sfregamento dello zaino insieme all'opera del sudore e del vento: il prezzo da pagare per arrivare in tempo a cena.

Lottano.

Lo spettro della punta Buzzetti dalla strada per Pradotti, presa al posto del sentiero per evitare d'essere sbranati dalle zecche.

Il pizzo di Prata si libera dalle nebbie.

Ginestre e pizzo di Prata.

Pra Baffone e il rifugio del Biondo.

Pra Baffone dall'alto.

Su per il canale Buzzetti.

Su per il canale Buzzetti.

Su per il canale Buzzetti nel tratto più ripido.

La bocchetta alta di Schiesone.

La punta Buzzetti.

Punta Buzzetti, vista aerea.

Punta Buzzetti, vista aerea.

Pizzo di Prata: la paretina NE.

In vetta al pizzo di Prata.

In vetta.

Chiavenna dalla vetta.

Scendendo lungo la cresta occidentale.

Lungo la cresta occidentale.

Il canalone del Portone.

Alla croce di Matra.

"Se questo è un uomo"

Nelle radure sopra Pradella.

domenica 8 marzo 2020

Pizzo Paglia (m 2593) - versante N

Cos'è che può far definire imperdibile una gita come quella al pizzo Paglia per il suo versante N, quando ci sono 3 ore di preambolo con gli sci in spalla che scoraggerebbero anche gli scialpinisti più sfegatati? Semplice: quel superbo pendio finale con pendenze dai 30° ai 35° e rivolto a N: il pendio per la sciata perfetta!
E poi, non da ultimo, quante cime conoscete da cui si vedono in contemporanea il lago Maggiore, il lago di Como, la Valtellina e la val Mesolcina?

 Il pizzo di Paglia visto dalle pendici del pizzo di Claro. L'itinerario di salita richiede 6 ore e mezza e supera un dislivello di oltre 2300 metri. Difficoltà: 4 su 6 sella scala Beno (OSA, con breve tratto alpinistico finale). Serve neve assolutamente sicura.




Il lungo itinerario per il pizzo Paglia. Picca e ramponi servono solo per gli ultimi 50 metri, ma non è da sottovalutare il lungo traverso degli scoscesi versanti della val Leggia da m 1000 a m 1500. Mappa © swisstopo.ch.

Ieri, quando il Corona virus ancora lo si conteneva con norme bizzarre e di difficile comprensione, eravamo sulle pendici del pizzo di Claro in val Calanca.
«Cos'è quella cima triangolare, con quel magnifico pendio triangolare?», ci siamo chiesti io e Gioia guardando a SE. La cima mica la riconoscevo. Non sono molto pratico dei versanti svizzeri delle montagne che s'affacciano alla Mesolcina. Tuttavia ne ho percorso con lo sguardo la cresta che dalla sommità va a S e ci ho riconosciuto torri e sinuosità: quella dorsale l'avevo cavalcata per intero nel 2014 col mio amico Caspoc', quindi la cima triangolare è per forza il pizzo Paglia, mentre alla sua dx c'è il Cardinello, monti che appartengono pure alla lariana valle del Dosso.
Ieri davano pericolo marcato di valanghe e il metro e 20 di neve fresca ci inquietava un po', ma avevamo potuto verificare che più stabile di così non poteva essere, così ho comunicato subito a Gioia che l'indomani avrei voluto andar lì di fronte a sciare, infischiandomi di quanti mila metri di dislivello avrei dovuto fare ravanando per raggiungere l'accesso sospeso di quella valle che proprio non pareva aver strade che alleviassero la fatica. «Vai vai, che io me ne sto a casa!»
La sera abbiamo seguito le notizie di possibili chiusure della Lombardia, ma alle 22, quando ancora c'era un nulla di fatto, me ne sono andato a letto e l'indomani, dopo avere stupidamente spento la sveglia e dormito più del necessario, mi avvio verso la frontiera con la Svizzera.
«Qualcosa da dichiarare?» mi chiede il doganiere svizzero dopo avermi cisto passare dalla dogana italiana sguarnita di personale.
«Gli sci da alpinismo».
Vengo così congedato con un «Buona gita!» e un sorriso.
«Allora - penso tra me e me - non deve esser successo niente. Non siamo tutti in quarantena, o almeno in Svizzera non deve essere ancora scattata la psicosi collettiva.»
A Grono esco dall'autostrada e mi dirigo contro monte a S, verso la località Tecc, un pugno di baite e stalle, dove ovviamente non c'è parcheggio. Torno perciò a N dell'autostrada e, lasciata l'auto accanto al torrente, mi incammino con gli sci in spalla. L'altimetro da 300 metri sul livello del mare... sicchè, nella migliore delle ipotesi, oggi mi tocca farne 2300 in salita!
A Tecc', oltre un curioso allevamento di capre dalla testa marrone e il corpo bianco, vengo raggiunto da un signore in auto, che scente e senza troppo convenevoli mi chiede straniato: «In gh'è val cunt i sci?»
«Pizzo Paglia» rispondo.
«Ma l'è luntan».
«Però c'è una neve bellissima!» gli riferisco e prendo congedo con un simpatico sorriso.
Imbocco la mulattiera che si avvolge in tornanti su per il versante della montagna, riflettendo curva dopo curva su quanto quel saggio uomo avesse ragione. Tra i m 500 e 800 noto un po' di cacca di cervi lungo il sentiero e qualche felce. È sotto zero, ma l'abitudine mi porta a controllare i pantaloni.
Eccole: 4 belle zecche che infischiandosene dell'inferno hanno deciso di attaccarmi. Le uccido scrupolosamente, poi ogni 30 passi mi ricontrollo.
Per fortuna dopo non molto inizia la neve e passa la mia paura.
Continuo con le scarpe da ginnastica fino a m 1000, dove il sentiero volta l'angolo ed entra finalmente in val Leggia. Cammino con gli scarponi da sci fino a m 1300, poi metto anche gli sci. Il sentiero, stretto, compie un lungo traverso a mezza costa sulle scarpate della valle. L'abbondante fogliame di tanto in tanto cela tratti ghiacciati.
Se scivolassi farei una brutta fine.
Alcuni canali che attraverso sono stati spazzati da recenti valanghe.
A m 1450 una serie di tornantini mi fa sbucare sull'alp de Comun, dove si trovano due baite ubicate presso la soglia sospesa dell'alta val Leggia.
Il paesaggio si apre e davanti a me l'immacolato pendio settentrionale del pizzo di Paglia.
«Che figata» esclamo, ma presto un poderoso zoccolo di neve mi fa cambiare idea e mi costringe a procedere come un carcerato con la palla al piede.
Pranzo. È già l'una.
Ripresa la marcia capisco che non c'è nessuna traiettoria obbligata. Evito solo di tagliare dei pendii ripidi che potrebbero non ancora essere assestati. Del resto la distruzione causata nel fondovalle da una recente valanga mi invita alla prudenza.
Giunto al cospetto dei roccioni del Sas Mogn, piego a sx verso la vetta del pizzo Paglia.
A m 2520 devo però levare gli sci: le metrate di neve polverosa che coprivano fin qui i pendii hanno lasciato il posto al ghiaccio.
Non provo nemmeno a portare le assi in vetta. A parte il freddo cane, la pendenza finale supera i 45° e non mi va di fare un ruzzolone sul ghiaccio. Uso perciò picca e ramponi.
Il pendio si stringe sempre più. Devo usare le mani su una roccia, poi ha inizio l'area cresta finale con notevoli cornici, sospesa tra la val Cama e la val Grono. Di fronte a me, oltre la croce, il lago di Como.
Le nuvole maledette hanno offuscato il cielo, ma ancora qualcosa del paesaggio rimane.
Eccomi in vetta al pizzo Paglia (m 2593, ore 6:30). I due laghi (Como e Maggiore), la val Cama, la val Grono, la valle del Dosso, ma anche il bossolotto col libro. Lo scorro avidamente e velocemente prima di congelare.
Non trovo la firma mia e del Caspoc', ma è ovvio: il libro è stato cambiato nel luglio del 2014, poche settimane dopo la nostra traversata.
Pace. Firmerò per oggi.
La discesa? Eccezionale, da lacrime proprio, fino a m 1550, poi gli sci diventano passeggeri del mio zaino. Ci metto quasi tre ore dalla vetta all'auto e il frontalino mi torna utile. Per fortuna in discesa niente zecche.
Rientro nel mondo civilizzato e ascolto la radio rientrando. È scoppiato il panico da Corona virus pure in Ticino e da domani senza permesso di lavoro non si potrà più accedere alla Svizzera, tantomeno per sciare anche se si va in posti dove è impossibile incontrare anima via.


A m 1000 il sentiero accede alla val Leggia, ma di neve ancora solo radi lacerti.


L'alp Comun, dove il panorama si apre e compare nella sua interezza lo splendido versante N del pizzo Paglia.

Il Sas Mogn.

In vetta al pizzo Paglia. Sguardo sul lago di Como.


Il libro di vetta.


Gli effetti devastanti di una vecchia valanga in alta val Leggia.

Tramonto in direzione di Bellinzona.


L'itinerario visto dall'alp de Comun.